Heimat, una storia 4° – Ore 8.00
Il sole già illuminava i prati di Mala, sulla sponda opposta della valle. Il Bepi si fermò ad ammirare un attimo il panorama, era raro che lo facesse, il tempo non era mai abbastanza, c’era sempre qualcosa da fare, pure adesso che ormai il maso era abitato stabilmente solo da lui e dalla Catina.
Ogni tanto la gioia per la visita domenicale delle figlie e soprattutto dei nipoti: la famiglia proseguiva, purtroppo con altri cognomi e soprattutto lontana dalla valle, ma in fondo era contento così: chi a Pergine, chi a Trento, chi in Vallagarina, chi addirittura a Genova, tutti avrebbero sicuramente avuto una vita migliore che al maso, o forse no?
Lui no, non avrebbe barattato per nulla al mondo quella vita: certo c’era la fatica continua per sopravvivere, ma lì, “nel suo”, lui si sentiva il padrone incontrastato del suo regno, povero certo, ma assolutamente “suo”, costruito mattone dopo mattone, dissodato palmo dopo palmo con la fatica ed il sudore suo e di tutta la sua famiglia, giorno dopo giorno, da quando appena sposati, lui e la Catina avevan deciso di vivere lì.
Il maso Pomini nel 1975 si presentava ancora nella sua forma originaria: una costruzione su due piani fuori terra oltre al pianterreno, che seguiva l’andamento del pendìo assecondandolo; due ingressi, uno per la sua famiglia ed uno per quella del fratello Arcangelo (ma per tutti era il Cange) che lì invece ci abitò pochissimo, preferendo la casa natìa, verso Fierozzo, al maso s’Schritzl. Architettonicamente distaccata, ma solidale strutturalmente al maso era la stalla al solo pianterreno.
Al piano terra dunque c’era la stube, ove si viveva e si cucinava, l’enorme portico coperto con la legna accatastata vicino al zòc, la mola per affilare le falci, azionata da un ingegnoso sistema a pedale, ed il pollaio al chiuso.
La scala esterna, ma riparata dal tetto, portava dal portico al primo piano: quello dove c’eran le camere ed il terrazzo coperto in mezzo al quale troneggiava il banco da lavoro del Bepi con la morsa, tutti gli attrezzi che dovevano servire a riparare qualsiasi cosa (ed eran tantissimi, tutti fabbricati od adattati direttamente da lui) e l’incudine: un bossolo di mortaio (o di cannone ?) della grande guerra, scovato sui monti lì intorno, tutti zona di guerra e di residuati, infine rotoli e rotoli di filo spinato, sempre di provenienza bellica, i geranei ed i garofani della Catina, amorevolmente coltivati in latte di ferro, che ora riposavano nel lungo sonno invernale.
Una seconda rampa portava alla teza, che sovrastava tutta la casa: uno spazio sterminato di 30 mt per 10, ove si custodiva il prezioso fieno per gli animali, con il recinto per la battitura della segale.
Sotto alla casa, con accesso da dietro, ove il pendìo saliva ripido in direzione della montagna, v’era il volt, la cantina, con la forgia a mantice per scaldare e lavorare il metallo: tutto doveva essere costruito e riparato nel maso, grazie a tecniche tramandate di padre in figlio, una conoscenza che univa tutte le genti di montagna che vivevano nei masi sparsi, la parte walser e genericamente tedesca delle alpi dunque.
Davanti al maso la strada sterrata d’accesso, che il Bepi non volle ostinatamente far asfaltare per evitare di “dover qualcosa agli italiani”, cioè agli uomini dell’ANAS che negli anni ’60 stavano lavorando alla strada per Roveda, l’albio, cioè la fontana ricavata da un tronco d’albero scavato e infine l’orto.
Sopra al maso iniziavano i prati di proprietà: la maggior parte coltivati a foraggio ed in pendenza, salvo alcuni terrazzamenti, un terreno difficile dunque, che il Bepi sfalciava a mano, puntandosi per non cadere dalla pendenza.
Più su il bosco: castagni che via via che si saliva facevan posto ai larici, dalla quota del maso (800 mt) sino ai 1300 mt della Kamaus.
Diversa era la collocazione della baita per la monticazione del bestiame durante l’alpeggio estivo: si trovava in pendìo sotto alla Bassa della Panarotta, a quota 1600.
Una minuscola baita ridotta all’essenziale, dove il pavimento era di pietre ed il fumo della fornasela usciva direttamente dalla porta o dalla finestrina e si dormiva sulla teza, direttamente sul fieno, e dove l’acqua occorreva andarla a prendere alla sorgente, con due secchi colmi bilanciati sulla schiena da un asse ricurvo, a mo’ di basto o di giogo.
Quel posto così primitivo, così spartano era il luogo della spensieratezza per il Bepi e per le sue figlie, il luogo delle lunghe giornate estive e della felicità dell’esperienza della natura, lì, veramente, ci si sentiva parte del creato, in armonia con sé stessi ed il mondo: le vacche libere di pascolare lì intorno, le baite vicine popolate dalle persone care, una comunità intera si ritrovava ogni estate per la fienagione, il primo fieno, il secondo fieno (il ligòr) ed a volte pure il terzo … e poi i ragazzi che giocavano, tutto il giorno liberi dietro alle vacche, stando attenti che queste non sconfinassero nei prati del Comune di Pergine, o piuttosto, stando attenti a non farsi scoprire, visto che quei prati avevan la fama di aver l’erba migliore e farsi ritrovare dalle guardie del Comune di Pergine con le vacche di Frassilongo che pascolavano fuori zona, sarebbe sicuramente significato una multa bella salata …
Le “puntate” precedenti:
Per chi si fosse “perso” qualche pezzetto di questa storia, ecco i link alle “puntate” precedenti: