Heimat, una storia – Ore 6
S’era svegliato alla solita ora, alle sei di una gelida mattina di febbraio, tutto come al solito, eppure si accorse da subito che c’era qualcosa che non andava, una sensazione di oppressione al petto, come un peso che lo schiacciasse, un’ansia, un anelito di vita, come se la vita lo chiamasse a se’.
Si alzò così con quel peso ed incurante prese a cominciare la sua giornata, il mestiere di contadino non prevede ferie o malattie o pause da stress, e si avviò verso la porta della camera, e fu subito all’aperto, dove lo accolse il gelo mattutino dell’inverno della montagna tirolese, la montagna vera, quella degli anni settanta, delle nevicate abbondanti e del sottozero costante da dicembre a marzo, quella dei ghiacciai alpini e delle nebbie padane da tagliare col coltello, quando da Trento si arrivava passando dapprima dalla strada dei Crozi, tagliata nella viva roccia dagli austriaci, poi una sosta a Pergine all’Alba, il ritrovo di tutti i mòcheni ed infine aggirando il dòs del Ciùs si arrivava a Canezza, una sosta ai Bolzi od ai Morelli e via, per il ponte sulla Fersina fatto ancora dagli austriaci, che a differenza del ponte degli italiani che era stato spazzato via dalla prima alluvione, era ancora lì da quasi cent’anni …
Aprì il solido lucchetto (“roba todesca, zaita !” pensò con autocompiacimento e malizia) , fece uno sforzo per tirare a sé la botola che separava i piani superiori dal piano terra, sentì scricchiolare il contrappeso e scese le ripide scale di legno che davano l’accesso al portico coperto, il terzo gradino mal fissato come sempre scricchiolò, chissà, forse un primitivo quanto efficace sistema di allarme, poi fu nel prato e pochi metri dopo aprì le porte del gabinetto: due assi sospese riparate da un casotto di legno ov’era presente, massima concessione alla modernità, un rotolo di carta igienica rosa, appeso col fil di ferro.
Ridacchiando fra sè e sè pensò alle disavventure grottesche lì accadute: dalla figlia maggiore che s’era pulita proprio lì con un mazzo d’ortiche, afferrandole per sbaglio in luogo della pianta dalle foglie giganti che era stata seminata ad arte attaccata alla porta e che poi fu rimpiazzata anni ed anni dopo dalla carta igienica, alla nipotina che v’era caduta dentro e che fu ripulita amorevolmente tra i pianti suoi e le risate della sua mamma …
Uscì dal cesso ed osservò il mucchio della grassa ghiacciata ricoperta dalla neve, e pensò che era ora di fare un po’ di spostamenti, non appena la temperatura, il disgelo e soprattutto i suoi settantuno anni gliel’avessero permesso.
Si avviò verso la stube ove trovò il tepore della california, la fornaséla, l’enorme stufa a legna piastrellata di blu, che aveva guadagnato quell’esotico soprannome per il tremendo calore emanato, ricordo di un’emigrazione di un parente al sole statunitense, chissà, forse ai tempi della corsa all’oro, e, salutando la moglie che era già in piedi da prima, si fece servire il caffè d’orzo dal bricco smaltato di blu.
Certo, c’era anche la napoletana, la caffettiera di alluminio da ribaltare, ma lui preferiva così, preferiva l’orzo al caffè, così come preferiva i ricordi di gioventù al crepuscolo della vecchiaia, come preferiva la stella alpina allo scudo crociato, come preferiva le campane di Brema al segnale orario di Radio 1, come preferiva l’Austria all’Italia.
Un po’ di latte delle sue vacche, un po’ di pane secco e via, anzi, come amava dire lui: “auf ch’él morghén !”.
Si sfilò le zopéle e calzò le calze di lana cotta, terribilmente pungenti eppure caldissime, mise ai piedi le sue dalmedre, sue perchè le aveva fatte lui, direttamente dalle sue mani, come il novanta per cento del suo universo, dalle serrature delle porte, alle scandole del tetto, dagli slittoni per portar giù il fieno a valle, alla mola per affilare le falci, dalle gerle per portare i carichi, alla Scalzifera, la bambola di legno per la più piccola delle sue figlie, quella che su cui eran riposte più speranze e che ebbe il destino più triste.