von fpm 03.11.2024 13:00 Uhr

03 novembre 1918: gli ultimi bagliori di un crepuscolo

Dopo aver tradito la Triplice Alleanza l’Italia esce vincitrice dalla Prima guerra mondiale e reclama le terre fino al Brenner.

foto archivi, elab grafica Flavio Pedrotti Moser

Il 26 aprile del 1915, il capo del Governo italiano, Salandra, e il ministro degli esteri, Sidney Sonnino, avevano stipulato un accordo sottobanco con Francia, Gran Bretagna e Russia. Presero la decisione all’insaputa del Parlamento, quindi fu una sorta di colpo di Stato. Impegnarono l’Italia a dichiarare la guerra all’Austria entro un mese. Per Trento e provincia e per tutto il Tirolo storico compresa la provincia di Bozen è l’inizio di un declino. Il confine viene imposto al Brenner lacerando così lo storico legame con Innsbruck e Kufstein e imponendo al popolo tirolese di lingua tedesca e ai 350 mila trentini, austriaci di lingua italiana, l’annessione forzata e l’appartenenza al Regno d’Italia; quindi, ad un Paese estraneo e considerato nemico dalla maggioranza della popolazione esclusi i pochi cosiddetti irredentisti considerati traditori dal popolo trentino tirolese. Trento e provincia quindi si accingeva suo malgrado a dover adattarsi ad una nuova realtà con cultura, educazione e identità completamente dissimili dalla storia locale. Ma cosa successe nel dettaglio il 3 novembre?

Il Welschtirol, Tirolo Trentino, per alcuni fu «redento», in realtà fu «occupato militarmente», da soldati italiani e inglesi, nel pomeriggio del 3 novembre 1918. A Trento, al ponte sulla Fersina arrivò da Mattarello un drappello di Cavalleggeri di Alessandria comandati dal colonnello Ernesto Tarditi di Centallo. Furono accolti dai rappresentanti della municipalità, così com’era stato convenuto per dare solennità all’ingresso degli Italiani a Trento. In verità, i militari italiani sarebbero stati preceduti da una staffetta di Londra se agli inglesi non fosse stato ordinato di fermarsi ad Aldeno. Sarebbe stato poco decoroso, infatti, far «redimere» una città austriaca di lingua italiana da soldati della corona britannica. Per organizzare la pantomima di benvenuto nella mattinata del 3 novembre erano arrivati a Trento il capitano Pietro Calamandrei nelle vesti di capo dell’ufficio propaganda del XXIX Corpo d’Armata, e il tenente Francesco Ciarlantini dell’Ufficio informazioni. A Trento erano ancora presenti tanti militari austriaci, amatissimi dalla popolazione che incredula doveva assistere alla farsa e alla drammatica invasione e occupazione. I soldati italiani furono accolti con un misto di curiosità e di sospetto. «Ci fu una reazione in generale fredda, animata da sentimenti di curiosità e preoccupazione».

Iniziò immediatamente la repressione italica con lo scopo di intimorire la popolazione e dettare sin da subito quale sarebbe stata l’agenda esistenziale. Già nel pomeriggio del 3 novembre, infatti, era stata proibita la vendita di vino e liquori. Le osterie dovevano rimanere chiuse «fino a nuovo ordine». Il Comitato provvisorio aveva ordinato che fossero tolte dalle vie della città «tutte le tabelle con la dizione tedesca». Trento stava entrando nel maelstrom funesto di quella opera di italianizzazione che poi avrebbe avuto ancor più tragico e doloroso risalto: dietro l’angolo faceva capolino il fascismo.

All’alba del 4 novembre la popolazione sconcertata ancora non sapeva esattamente cosa sarebbe successo, che fine avrebbero realmente fatto. Quale sarebbe stato il futuro dei tirolesi trentini ben lontani dallo spirito irredentista considerato voltafaccia al servizio di pochi borghesucci di Trento per lo più attratti da comodi interessi e promesse italiche.  Nonostante l’ex deputato austriaco Cesare Battisti fosse stato giustiziato per spionaggio e tradimento, la sua amicizia con Mussolini echeggiava e sembrava presagire un futuro non certo sereno.

Nonostante gli irredentisti, Cesare Battisti in primis, abbiano sempre voluto solo Trento e il Trentino con il confine alla stretta di Salurn, i politici italiani chiesero molto di più. Ragioni di carattere militare li spinsero a pretendere il confine spostato molto più a nord, fino allo spartiacque del Brenner, e non importa se così facendo si doveva annettere anche una regione con una popolazione di più di 250.000 di lingua tedesca e ladina. Wilson, Presidente degli Stati Uniti, seguendo le sue convinzioni riguardo il rispetto dell’identità di una popolazione, inizialmente si oppose ma i politici italiani con sotterfugi lo costrinsero o lo convinsero a cedere, assegnando il Sud-Tirolo all’Italia. L’Austria, sconfitta, sollevò invano una energica protesta. Come si dice: guai ai vinti!

Nel 1922 Mussolini prende il potere. Nazionalista all’estremo, tra le tante campagne che lancia vi è anche quella per l’italianizzazione della provincia di Bozen, che subito nominò “Alto Adige” riprendendo una invenzione napoleonica. Il Südtirol, anche come toponimo, doveva sparire. Trova un fedele alleato nel senatore Ettore Tolomei, un fascista di Rovereto con origini toscane, che si butta anima e corpo nella titanica impresa di inventare nomi italiani per tutti i toponimi tedeschi del Südtirol. I suoi sforzi sono comici, infila uno strafalcione dietro l’altro, traduce molto spesso ad orecchio, per assonanze; purtroppo per il Südtirol, però, ha l’appoggio di tutto l’apparato fascista. E cominciano gli anni bui, gli anni della repressione, dove è vietato parlare tedesco, men che meno insegnarlo a scuola, e i sudtirolesi si devono arrangiare con katacombenschulen, le scuole-catacomba, scuole nascoste dove rischiando la prigione insegnanti volontari insegnano il tedesco ai bambini.

Ogni dissenso è stroncato con la forza, vengono deportate decine e decine di migliaia di persone dalle regioni italiane più povere per colonizzare la regione. Mussolini vuole una Bozen da centomila abitanti tutta italiana, e ci riesce; fa costruire monumenti ed edifici che, caso unico in Italia, sono tuttora esistenti, mantenuti e ristrutturati periodicamente, e venerati da una certa parte politica come prova dell’italianità di una regione che non ha nulla di italiano.

Triste, oggi, pensare che ormai si festeggia il 3 novembre come la data di una città redenta quando invece sarebbe non da festeggiare ma da biasimare e ricordare invece i nostri nonni o bisnonni che hanno combattuto per difendere i nostri confini dalla prepotenza italica. Così come tanti di noi ricordano sicuramente le parole sussurrate in famiglia da chi ci raccontava la nostra storia: «Taliàni ciapàdi col s-ciòp».

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