Una sera d’aprile

Era l’aprile del 1945 e la seconda guerra mondiale stava finendo. Una lunga carovana di soldati della Wehrmacht stava risalendo l’alta valle dell’Astico verso il confine con il Trentino per portarsi mestamente verso casa. Proprio a ridosso del confine trentino vi era il piccolo paesino di Pedemonte che, assieme a Casotto, fino al 1918 faceva parte del Tirolo e quindi dell’impero d’Austria.
Storia antica quella di Pedemonte: la costruzione della chiesa parrocchiale di Brancafora, attuale centro religioso del paese, si fa risalire a papa Bonifacio VI nel VII secolo. Nel 1920 assieme a tutta la parte meridionale del Tirolo, passò al regno d’Italia quale bottino di guerra e nel 1929 fu staccato dalla regione e,  con un decreto dell’allora governo fascista, fu aggregato alla provincia di Vicenza. Pedemonte allora faceva parte della diocesi di Trento e vi rimase, nonostante amministrativamente fosse regione Veneto e provincia di Vicenza, fino all’anno 1964.
L’unico attuale aggancio rimasto con il Trentino è il sistema catastale-tavolare, istituito ancora da Maria Teresa d’Austria per l’allora impero austriaco. Infatti per le pratiche catastali i cittadini Pedemontani dipendono ancora oggi dall’ufficio catasto della Provincia Autonoma di Trento. Gente fiera e laboriosa i Pedemontani, gente di emigrazione, di duro lavoro e custodi tenaci delle proprie memorie. Nel referendum svolto nel 2008 la quasi totalità della popolazione votò compatta per il ritorno in Trentino, la propria indimenticata Heimat.
Nel 1934, designato dal vescovo di Trento, arriva a Pedemonte don Arcangelo Riz proveniente dalla parrocchia di Piscine in val di Cembra. Don Arcangelo, nato nel 1899 a Campitello di Fassa da Luigi Riz Peta e Orsola Riz Ticia, è il primo di 10 figli. Si insedia nella parrocchia di Brancafora ed entra subito in piena sintonia con i paesani sparsi nelle varie frazioni del piccolo comune. Oltre che curatore d’anime si presta fin da subito ad aiutare la povera gente stremata dalla mancanza di lavoro.
Nella canonica di Brancafora, che disponeva di un discreto pezzo di campagna, porta con sé i cinque fratelli non ancora sposati ed anche la mamma Orsola, rimasta vedova con 10 figli da accudire. Il marito Luigi era morto giovane nel 1922, in seguito alle ferite riportate sul fronte Galiziano e sul Col di Lana. Inizia così, per l‘ approssimarsi della guerra, un periodo di vita difficile, ma che con il lavoro di tutta la famiglia nel piccolo appezzamento di campagna si svolge in modo dignitoso. Don Arcangelo Riz si divide fra le varie frazioni, alcune molto distanti fra di loro, alcuni fratelli curano l’orto ed i pochi animali della stalla.
L’unico che per lavoro si stacca dalla famiglia è Fortunato che, con una marcia a piedi di oltre 2 ore risalendo il monte Spilleck, si porta giornalmente a Lavarone. Qui presta la propria opera imparata da ragazzo in val di Fassa, come Maler (pittore) presso il comando della Wehrmacht. Fortunato Riz realizza e si occupa della manutenzione di tutte le tabelle che indicano le varie dislocazioni dell’esercito tedesco.
E‘ l’aprile del 1945:Â all’imbrunire dopo la frugale cena, come ogni sera la famiglia si riunisce attorno a don Arcangelo per recitare il rosario. All’improvviso si sente un grande frastuono proveniente dall’esterno. La porta di casa viene sfondata violentemente a calci e si presenta nella stanza un manipolo di partigiani indemoniati ed armati fino ai denti, comandati da un feroce personaggio molto noto allora nell’alto vicentino per le scorribande e le ruberie perpetrate a danno della popolazione civile.
Fra urla, percosse ed imprecazioni, spingono gli inermi fratelli contro il muro della stanza e minacciano di fucilarli tutti, in quanto (secondo loro) rei di collaborazionismo con l’esercito tedesco in ritirata verso la Germania. A quei tempi bastava salutare o dare un sorso d’acqua ai poveri soldati stremati da anni di guerra e desiderosi solo di tornare presso le proprie famiglie, per essere accusati di collaborazionismo.
Don Arcangelo implora i partigiani di risparmiare i fratelli offrendo la propria vita in cambio della loro. Forse impietositi dal gesto del prete, i partigiani risparmiano la famiglia, accanendosi però brutalmente e violentemente su tutti loro con i calci dei fucili e delle rivoltelle. Non paghi, scendono nella stalla e rubano le galline, i conigli e la mucca che davano quel poco di sostentamento alla famiglia. Si portano via anche la macchina da scrivere che Don Arcangelo custodiva nella sua stanza e infine se ne vanno minacciando che non sarebbe finita lì e che sarebbero ritornati ancora.
Don Arcangelo pur ferito ringrazia Dio che l’anziana madre Orsola fosse riuscita qualche mese prima a tornare in val di Fassa, in quanto sicuramente non avrebbe potuto resistere ad una simile violenza. Per lo spavento e le percosse subite, nel giro di qualche giorno, i capelli del sacerdote da un nero intenso diventano completamente bianchi.
Il gruppo di banditi, che si definivano partigiani, viene denunciato ai carabinieri: gli uomini vengono arrestati ma il processo, causa il finire della guerra e l’estrema incertezza che regnava, non viene svolto ed alla fine vengono liberati.
Don Arcangelo dopo 13 anni lascia Pedemonte chiamato nella parrocchia di Faedo. Il 15 agosto del 1947, festa di S. Maria Assunta patrona della chiesa di Brancafora, scrive ai propri parrocchiani una struggente lettera di commiato. Molti dei Pedemontani la conservano ancora gelosamente fra i ricordi più cari.






