I soldati tirolesi della provincia di Trento nell’esercito austro-ungarico durante la Prima guerra mondiale

Furono migliaia gli uomini partiti all’improvviso, in una sera d’estate del 1914, diretti verso terre lontane e sconosciute. Dopo l’entusiasmo dei primi giorni — tra i canti sui treni che correvano verso oriente, malinconici “come uccelli sulla neve” — arrivarono la paura, l’incertezza, la consapevolezza di un destino oscuro. Molti conobbero gli orrori della guerra sui campi di battaglia di Galizia e Bucovina, dove trovarono la morte nelle stragi delle pianure polacche. Tantissimi di loro scomparvero senza lasciare traccia; molti altri lasciarono nel Tirolo del Sud famiglie e affetti che li attesero invano: una moglie, dei figli, un vuoto che il tempo non riuscì mai a colmare. Questo è l’abisso della guerra, e a noi rimane il dovere della memoria. Negli ultimi vent’anni, numerosi studi e pubblicazioni hanno cercato di riportare alla luce la vicenda dei tirolesi di lingua italiana nell’esercito imperiale durante la Prima guerra mondiale. È stato un recupero tardivo, nato per colmare un silenzio lungo e pesante, frutto di un contesto storico-politico che rese difficile affrontare l’argomento. Le ragioni di questa rimozione sono diverse, ma una in particolare pesa più delle altre: la politica di “italianizzazione” forzata imposta dal regime fascista nelle cosiddette terre redente.
La “memoria dei vinti”, come spesso accade, venne sottoposta a un processo di denigrazione e cancellazione. Questo atteggiamento segnò profondamente la coscienza collettiva. L’esperienza dei circa 60.000 tirolesi-trentini che avevano servito l’Impero non fu solo una pagina scomoda, ma divenne quasi una colpa da espiare, un peso morale da portare in silenzio. Persino i cimiteri furono toccati da questa condanna: sulle tombe dei soldati caduti comparvero iscrizioni imposte o offensive, frutto della volontà delle amministrazioni locali o di ordini superiori. Era un modo per rifiutare quei morti, considerati “colpevoli” di aver servito la parte sbagliata, condannandoli a un limbo tra il rispetto e il disprezzo — “morti per la patria nefanda ed oscura”. Il fascismo non impose soltanto le proprie leggi e istituzioni, ma anche la sua narrazione del passato. Costruì il mito dell’irredentismo come unica storia legittima, cancellando deliberatamente ogni memoria alternativa. «Eroi, sacrifici, sangue, memoria sono tutti elementi essenziali per la creazione di forti tradizioni», scriveva un autore dell’epoca.
Ancora oggi sembra che su questa vicenda sia calata una sorta di damnatio memoriae, come se non fosse mai accaduta. Anche dopo la Seconda guerra mondiale, l’atteggiamento verso quei soldati cambiò poco: le tensioni nazionalistiche continuarono a prevalere e la storiografia ufficiale mantenne viva la retorica della nazione, degli eroi e dell’irredentismo, trascurando del tutto la complessità della vicenda tirolese-trentina tra il 1914 e il 1918.
I 60.000 trentini che combatterono per l’Impero erano sudditi dello Stato asburgico, di cui si sentivano parte da generazioni, e risposero alla chiamata come qualunque altro cittadino. Alla fine della guerra, molti reduci trentini conobbero un ritorno difficile e doloroso. Il 16 novembre 1918 le autorità italiane d’occupazione ordinarono agli ex combattenti austriaci di presentarsi ai comandi militari.
«Convinti che la guerra fosse ormai finita e che nulla di grave potesse più accadere, abituati all’obbedienza e al senso del dovere, la maggior parte dei reduci si presentò spontaneamente, pur stremata dalla fame e dalle malattie». Ma quei soldati furono condotti fino a Isernia e trattati in modo disumano, tanto da rimpiangere la fame del fronte o la prigionia in Russia. Fu la prima, crudele rappresaglia italiana.
Con l’avvento del fascismo, arrivarono anche le epurazioni: lunghe liste di “austriacanti” trentini furono redatte e molti vennero esclusi dai benefici riservati agli ex combattenti italiani, ai mutilati e alle vittime di guerra. Lo scrittore Fritz Weber descrisse con parole toccanti il senso di smarrimento dei reduci: «Dovunque c’erano uomini e popoli che si univano, guidati da uomini della loro lingua, con nuove speranze davanti a sé. Solo noi vagavamo senza meta, odiati da molti…».
E a tutto questo si aggiunse l’amarezza di chi aveva combattuto sul fronte meridionale, convinto di non essere mai stato realmente sconfitto: «L’Italia non ci ha mai vinto. In tre anni e mezzo di guerra non riuscirono a conquistare un solo palmo di terra tirolese, benché fossimo inferiori di numero… Con orgoglio potevamo dire: a parità di forze, li avremmo sempre sconfitti. Eppure, tutto finì nella rovina e nella disfatta».






