von fpm 04.09.2025 10:00 Uhr

Cronistoria

Autonomia: percorsi e dintorni (2)

Elaborazione grafica Flavio Pedrotti Moser

Nel 1960 il cancelliere austriaco Bruno Kreisky portò la questione sudtirolese all’attenzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che con due risoluzioni invitò le due parti alla trattativa allo scopo di trovare una soluzione a tutte le divergenze riguardo l’applicazione dell’accordo di Parigi. Il Governo italiano istituì una Commissione di studio per i problemi del Südtirol, che lavorò per molti anni all’elaborazione di norme da sottoporre al consenso anche di Vienna e dei rappresentanti politici della popolazione sudtirolese. Nel 1969 fu conclusa la trattativa e concordato il cosiddetto „Pacchetto di misure a favore delle popolazioni sudtirolesi“. Il „Pacchetto“, approvato dal congresso della SVP, dal Parlamento italiano e da quello austriaco, rappresentò il fondamento politico della nuova autonomia.  Da qui nasce il Secondo Statuto, approvato dal Parlamento italiano il 10 novembre 1971. Esso assegna alle due Province di Trento e di Bozen un vasto numero di competenze legislative detenute fino ad allora dalla Regione, a cui se ne aggiunsero altre trasferite dallo Stato. Nel corso dei successivi vent’anni, ad opera delle commissioni paritetiche „stato-autonomie“, istituite per predisporre le norme di attuazione dello Statuto, l’autonomia venne di fatto notevolmente ampliata assumendo, anche nello spirito regionalista che cominciava man mano a prendere piede in tutto il territorio nazionale, il respiro e la dimensione di autonomia territoriale.

Fra le novità introdotte dal nuovo Statuto vi è la tutela, oltre che della minoranza di lingua tedesca, anche delle altre minoranze locali presenti sul territorio regionale, come i ladini di entrambe le province, i mocheni e i cimbri nella provincia di Trento. Elemento cardine del sistema autonomistico è il bilinguismo, mentre lo strumento per raggiungere un equilibrato assetto socioeconomico è la „proporzionale“. Un meccanismo che prevede il diritto dei gruppi linguistici ad essere rappresentati per quote nell’impiego pubblico e nell’accesso ad alcuni benefici di carattere sociale (ad esempio nell’assegnazione degli alloggi pubblici).

Lo studio dei diritti linguistici non si ferma alla sola analisi della compresenza di più lingue in un territorio. I comportamenti linguistici sono stati studiati a partire dagli anni ’50 utilizzando strumenti provenienti da discipline come la sociolinguistica, la sociologia del linguaggio e la psicologia sociale. In particolare, la complessità dei repertori linguistici, le gerarchie che si instaurano tra le lingue in base ai valori culturali ed equilibri di potere hanno portato a focalizzare l’attenzione non solo sulle lingue parlate, ma anche sulle persone che parlano e diffondono queste lingue.

La giurisprudenza, le scienze politiche, gli studi culturali e la linguistica hanno contribuito a dare forma all’idea di „diritto linguistico„, il diritto di singole persone o di una comunità di poter parlare la propria lingua madre.

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