Voci di montagna- La leggenda di Caldòn

C’era una volta in Valsugana, alle pendici dell’attuale dosso di Tenna, una grande città , turrita e murata, di nome Caldòn. Architettonicamente era bellissima e perfetta e così fervida di commerci e di traffici che tutti i suoi abitanti, senza alcuna eccezione, godevano di una agiatezza incredibile. Di fronte, alle falde della Marzola, sorgeva una seconda città , Susa, pure cinta di mura ed egualmente fastosa.
Ma dove il benessere abbonda ogni sentimento purtroppo si corrompe e subentra l’egoismo e l’insensibilità . I caldonesi, perciò, per tutelare i loro privilegi economici, avevano addirittura promulgato una legge che vietava l’ingresso in città ai mendicanti. I trasgressori venivano puniti con l’espulsione, previa fustigazione pubblica e, in tali occasioni, per dimenticare l’affronto recato al decoro di Caldòn dalla testimonianza così degradante della miseria, si organizzavano lauti banchetti e festeggiamenti pubblici con la partecipazione di tutti, giovani e vecchi.
Ma un giorno, mentre si gozzovigliava, comparve sulla piazzaprincipale un mendicante. Così cadente, penoso e misero mai si era visto eguale e nessuno riuscì a capacitarsi come avesse potuto, proprio lui, eludere la vigilanza delle guardie sulle mura e l’attenzione di tutti per le vie. Comunque gli si scagliarono subito addosso in cento e, risparmiandogli la fustigazione per via dell’età , a calci, pugni e spintoni, trascinatolo sulla torre dalla quale venivano gettati i rifiuti della città , senza pietà lo scaraventarono giù.
Per fortuna quel lercio immondezzaio attuti di molto la caduta ed il malcapitato riuscì a cavarsela senza grosse conseguenze. Compatibilmente con le sue possibilità fisiche, tra lazzi e svillaneggiamenti, si allontanò in gran fretta da gente così inospitale e si diresse verso Susa. Ma i suoi abitanti avevano assistito con altrettanto divertimento alla sua espulsione da Caldón e non furono da meno: venne respinto come un cane rognoso con una gragnuola di sassi.
Il poveraccio, fatto un largo giro, prese allora un sentiero che s’addentrava nel bosco e saliva in Marzola e raggiunse una radura dove, in uno squallido tugurio, viveva una vedova con i suoi quattro bambini.
Ormai annottava e il poveretto, allo stremo delle sue forze, s’arrischiò a chiedere un po‘ di cibo. Ma la donna sconsolata, scosse la testa: che s’accomodasse pure, nella sua casa era come un vecchio amico, ma in quanto a mangiare non possedeva purtroppo nemmeno un pugno di farina per sfamare i suoi figlioli. L’accattone a quelle parole s’eresse sul busto e la guardò fissa dentro gli occhi con infinita dolcezza e comprensione: – Non preoccuparti, nella madia – sussurrò – forse, qualcosa ancora è rimasto.
La vedova lo sapeva bene che non c’era proprio niente, già il giorno prima ne aveva grattato inutilmente il fondo, comunque sollevò il coperchio, più per accontentare l’estraneo e fargli constatare la sua miseria, e invece,  madona!, la madia era incredibilmente colma di farina. Guardò di sottecchi lo strano vecchio, ma non ebbe il coraggio di fiatare anche perché un groppo di pianto le serrava la gola. Si diede subito da fare e, mentre i ragazzi correvano a macar sù legna, tutta allegra preparò una focaccia gigantesca. Quando fu cotta, si sedettero tutti a tavola e cominciarono a mangiare a quattro palmenti. A stomaco pieno era ritornata la fiducia in quella casa! Quando ebbero finito, i bambini già cominciavano a cedere al sonno ed allora l’ospite, prima d’andare a dormire, raccomandò alla donna di non spaventarsi qualunque cosa avesse sentito quella notte, ma di non guardare dalla finestra, per nessuna ragione, fino a giorno fatto.
A mezzanotte dalle creste più alte della Vigolana, la montagna vicina, traboccano, improvvisi, nembi procellosi che turbinosamente scendono sulla Valsugana. Si scatena un’iradiddio di tuoni, fulmini e saette. Portate da violente raffiche di vento precipitano masse torrenziali di pioggia che, raccogliendosi sul terreno presto zuppo, scendono per mille rigonfi rigagnoli dai fianchi del Becco di Filadonna, del Campigolet, della Marzola, della Terra Rossa,del Chegùl, del Dos dei Corvi. Il torrente Mà ndola divalla pazzamente, trascinando detriti, come fosse cavalcato dal principe diavolo in grande uniforme, mentre giù in valle è un inferno scatenato di crolli, di schianti e di rovine.
Di primo mattino la vedova, che figuriamoci se aveva chiuso occhio, si fece sul ciglio della radura. Il finimondo s’era placato ed un sole spento filtrava tra squarci di pesanti nuvoli in fuga. Guardò giù verso la Valsugana e rimase pietrificata: le mura superbe di Caldon erano scomparse e pure quelle di Susa. Una punizione terribile si era abbattuta su di esse e le aveva cancellate per sempre dalla faccia della terra. Al loro posto un lago smisurato e cupo riempiva la valle, sulle acque limacciose galleggiava solo qualche rottame. La donna rientrò affannosamente in casa: quel vecchio doveva pur saperne qualcosa. Ma questi, miracolosamente, era scomparso e sul saccone di foglie, dove aveva trascorso la notte, stava deposta una croce di legno. La donna commossa cadde ginocchioni, non bastavano certo le sue povere preghiere per ringraziarlo per lo scampato pericolo, perché quel vecchio, altri non poteva essere che il Signore. Poi prese la croce e la pose in cucina sopra la madia. E da allora il miracolo della farina si ripetè, giorno dopo giorno, per sé e per i suoi figli, finché furono in grado di guadagnarsi da vivere.
Oggi il lago di Caldonazzo non è certo la fosca distesa d’acque della leggenda. La natura l’ha provvidenzialmente ingentilito, le sue acque, purificate, hanno il pallore verdazzurro dei cieli nordici in primavera e popolazioni di pesci lo ravvivano di guizzi colorati. Sui modernissimi lidi impigrite bellezze di mezza Europa si espongono al sole. Tra una coca-cola ed un pompelmo, lassù, il regale Fravort mette intanto cappello






