von mas 04.02.2022 11:45 Uhr

Il silenzio delle case chiuse

RADICI: Storia & Storie di Maurizio Panizza –  La prostituzione fra ‘800 e ‘900 a Trento e a Rovereto: il lavoro “sporco” di donne escluse, sfruttate, offese da sempre.   L’indagine di Maurizio Panizza –  lo scrittore-giornalista un po‘ detective,  che  da molto tempo collabora con UT24 –  è contenuta insieme tante altre  in  “Trentino da raccontare”, una raccolta di circa 30 “storie” che l’autore ha ricostruito dopo lunghe ricerche, disponibile in tutte le librerie.  Oggi la pubblichiamo nella versione ridotta.

La cosiddetta legge “Merlin”  approvata dal parlamento italiano nel 1958 decretò  fra mille polemiche  la definitiva chiusura delle case di tolleranza,   ponendo fine allo „sfruttamento“  – per lo meno, a quello „ufficiale“  – della prostituzione.  La legge però  non si rivelò la soluzione definitiva del problema, anzi. Infatti, subito dopo si assistette all’inizio dello sfruttamento clandestino della prostituzione e all’affiorare  di ulteriori  problemi oltre che di dubbi nell’opinione pubblica su come affrontare una questione che periodicamente si sarebbe riproposta con forza sino ai nostri giorni. 

Così, conoscere questa storia, anche quella più lontana nel tempo, significa comprendere a fondo queste donne. Donne spesso “schiave”, a volte  paradossalmente  più “libere” ed emancipate di tante loro contemporanee. Donne ignoranti o istruite, povere o benestanti, disperate o fiduciose nel futuro, vere o finte. Donne che si portarono appresso lo stigma sociale della riprovazione, donne oggetto di un vergognoso contratto mercantile all’interno del quale, però, molto spesso furono proprio loro a risultare i soggetti migliori, i più ricchi di cuore, di altruismo e di umanità.

Un silenzio imbarazzante durato più di un secolo, scomodo e scabroso soprattutto se rapportato a piccole realtà come la nostra, ha avvolto le cosiddette case chiuse, ovvero case di tolleranza, bordelli o casini che dir si voglia. Una questione controversa, incessantemente sussurrata, ma sempre rimossa ovunque come la peggiore delle depravazioni e quindi da non affrontare mai in pubblico perché moralmente scorretta.   Tutti a condannare in pubblico e tutti a tollerare in privato, ognuno con i propri interessi e le proprie debolezze da nascondere.

In effetti, dietro a quelle finestre perennemente chiuse e dentro a quei locali impregnati di talco e di lisoformio, si fondevano e si confondevano spinte uguali e contrarie: moralità e peccato, Dio e Demonio, libertà e sfruttamento, gioie e sofferenze, passioni private e partecipazioni pubbliche. Tutto ciò, insieme ipocritamente, per avere ognuno il proprio tornaconto.

Nessuna classe sociale rimaneva esclusa dal novero degli “ospiti” di quelle case particolari. La media borghesia era stata da sempre quella più rappresentata attraverso professionisti, imprenditori, impiegati (e pure qualche prete), ma dopo la metà degli anni Cinquanta anche il popolo degli operai si affacciò sempre più numeroso alle porte dei casini: il boom economico, che di lì a poco avrebbe trasformato profondamente la società,  stava dando anche in questo campo i primi timidi segnali dai quali neppure la nostra regione sarebbe rimasta esclusa. Così, con il passare del tempo e con l’apertura degli orizzonti culturali – per così dire – il sabato e la domenica iniziarono a scendere in corriera dalle valli pure frotte sempre più numerose di contadini. Costoro, con la scusa di qualche fiera di attrezzi agricoli o di animali si recavano, in realtà, là dove di fiere ce n’era sì una, ma di tutt’altro genere.

Tuttavia, il momento “magico” dell’iniziazione al sesso, quello che segnava il passaggio all’età adulta, era da sempre riservato ai giovani coscritti che andavano alla visita di leva.

E fra tutte queste varie tipologie di clienti, chi poteva farlo evitava di frequentare le case chiuse della propria città per ovvie ragioni di riservatezza. In tal modo si innescava spesso un pendolarismo sessuale da Trento verso Bolzano (celebri in questa città il “Navarro”, o la “casa” di via Conciapelli), oppure verso Rovereto e viceversa.

A Trento erano tre le case “ufficiali” in funzione: quella di via Brennero, frequentata più che altro dai militari presenti nel capoluogo (durante la Prima Guerra una casa “per soldati” era pure presente in via Malpaga e, negli anni ’40, una in via Petrarca), poi una casa in via San Martino e un’altra in via Secondo da Trento, nei pressi della vecchia caserma dei pompieri, in piazza Centa. Per via di questa sua collocazione, nel gergo dei trentini “andare dai pompieri” aveva assunto negli anni un significato ben preciso che nulla, ovviamente, aveva a che vedere con i vigili del fuoco.

Qui, in un’antica palazzina, nascosta in parte da un’alta fila di platani, era ospitata la casa più importante della città. Ad essa si accedeva per un giroscale di gradini in pietra e per una piccola porta al primo piano che dava su di una sala comune. Solo per entrare si pagavano dieci lire. Da lì, seduti su delle panche poste al perimetro della stanza, i clienti potevano osservare le “signorine”, poi scegliere quella che più piaceva e quindi salire nelle camere. Sulla sala, inoltre, si affacciavano quattro stanze – i “salottini”, come venivano chiamati – usati da quei clienti più danarosi che volevano mantenere un assoluto riserbo sulla loro visita. Una curiosità: per permettere a costoro di non essere visti, sia nel momento della loro entrata che in quello dell’uscita la tenutaria tirava  una lunga tenda che veniva a creare una specie di corridoio separato dalla sala comune, permettendo così a questi ospiti di potersi muovere nella casa con la massima riservatezza.

A Rovereto, invece, circa negli stessi anni operava una sola casa di tolleranza. Era l’ultima di una sparuta pattuglia di casini che sin da tempi immemorabili erano presenti in città. La più antica casa di incontri di cui si ha cognizione, già esistente nel ‘600, era quella che alcuni ricercatori individuano oggi in Via della Terra, al civico 27, dove oggi (ironia del destino!) è ubicata l’associazione “Casa delle donne”. Due secoli più tardi, una casa di tolleranza troverà collocazione in Scala della Torre, fra Piazza Erbe e Via della Terra, dove attualmente si trova una trattoria tipica, mentre negli anni ’30 del Novecento, pare che un altro bordello fosse collocato in una casa isolata in Via Ronchi, nei pressi della S.S. 12, vicino all’attuale caserma dei pompieri.

Tuttavia, il bordello che rimase in attività fino all’inizio degli anni Cinquanta, fu quello ospitato nei locali di un’elegante palazzina in stile liberty chiamata dai clienti “Villa delle Rose”, tuttora esistente in Lungo Leno destro, a quel tempo zona del tutto isolata dal contesto cittadino. Lì, in quella casa borghese, dedicata in particolar modo ad un erotismo altolocato, sembra esercitassero la loro professione 3 -4 giovani donne, le quali ogni quindici giorni lasciavano il posto ad altrettante, secondo la vecchia regola dell’avvicendamento per evitare che nascessero legami troppo stretti con i clienti.

  • Rovereto, quella che un tempo fu l'ultima casa di tolleranza.

Al suo interno, nella prima sala in cui venivano ricevuti gli “ospiti”, era collocata bene in vista una targa che riportava le tariffe. Verso la metà degli anni ’50 ogni prestazione costava da un minimo di 200 lire (5 minuti in una „casa“ di terza categoria) fino a 8.000 (un’ora in una „casa“ di lusso), cioè in moneta attuale, per approssimazione, da 3 a 95 euro. Detto così, sembra molto poco, ma tenendo conto che ogni ragazza „serviva“ da 30 a 50 clienti al giorno, il totale che si ottiene non è affatto indifferente.

Inutile dire che a fronte di tali ritmi a dir poco disumani, solo una parte infinitesimale di quell’enorme fiume di denaro finiva in mano alle prostitute. La parte più cospicua, infatti, andava ai tenutari delle case e, in percentuale, alle casse statali, le quali  incameravano annualmente circa 100 milioni di lire, pari a 1,2 milioni di euro di oggi. In cambio, lo Stato forniva alcuni servizi, fra cui la registrazione agli Uffici del Lavoro che prevedeva, fra l’altro, un periodo di apprendistato e il versamento dei contributi obbligatori per la pensione e la disoccupazione.

C’era poi il servizio sanitario attraverso il quale un ufficiale medico eseguiva due-tre visite di controllo alla settimana alle prostitute e due volte all’anno per il rimanente personale della casa. Inoltre, doveva essere tenuto con scrupolo un Registro giornale nel quale veniva descritta in maniera dettagliata ogni cosa attinente l’andamento dell’impresa, come ad esempio i nomi delle ragazze in servizio, le loro assenze (che dovevano essere sempre giustificate), le ispezioni sanitarie, ma soprattutto l’elenco dei clienti con scritto l’orario di entrata e di uscita, gli estremi dei documenti e le loro generalità. E’ da notare, ancora, come tutta l’organizzazione fosse sottoposta al rigoroso controllo della Prefettura, del Podestà (ovvero del Sindaco in epoca repubblicana) e del presidente la Commissione per la Censura, nella fattispecie un alto religioso nominato dalla Curia. In più è da dire che ogni tre-cinque anni la prostituta doveva rinnovare tutti i documenti fra cui il suo certificato di moralità che attestava essere, oltre ad un’integerrima cittadina, pure una brava cristiana dedita ai sacramenti.

 

  • 1931 - Certificato per la regolare professione di meretricio

Con il 1958 tutto ciò venne azzerato. A Trento, quel giorno, un attento testimone, forse non del tutto disinteressato, annotò: “Mi trovavo lì per lavoro e vidi una gran folla in via San Martino. Era la coda per l’ultimo giorno di apertura della casa di tolleranza.”

A Rovereto, invece, la casa lungo il torrente Leno aveva già sospeso l’attività da tempo. Quel grande edificio liberty, chiamato secondo il detto popolare „la casa delle donne“, divenne alla fine degli anni ‘50 proprietà comunale. Si racconta che quando il Comune decise di concederla in affitto a chi era senza casa, costoro la andavano a vedere, ma rinunciavano subito perché aveva delle decorazioni ben poco adatte a delle famiglie. E siccome i decori non si potevano imbiancare, il Comune decise così di metterla all’asta.

Da quel momento in poi le finestre erano tornate ad aprirsi ed il vecchio proprietario, da una delle poche testimonianze potute acquisire, si era trasferito in un appartamento in centro città. Lì era andato ad abitare con una bella giovane che un tempo era stata una delle “sue” ragazze di vita.

 

I dettagli di questa storia raccontata da Maurizio Panizza sono veramente interessanti e molto particolari, non resta che leggerla per intero per scoprirli tutti.

  • Maurizio Panizza - ©Cronista della Storia - maurizio@panizza.tn.it ©Copyright - Maurizio Panizza. Tutti i diritti riservati. La riproduzione, la pubblicazione e la distribuzione, totale o parziale, del testo e/o delle fotografie originali sono espressamente vietate in assenza di autorizzazione scritta.
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