Briciole di Memoria: Squadristi a Bolzano

“Il 24 aprile del 1921 elementi della Lupi, della Me ne frego e della Disperata con Gino Compagnoni, Pini, Bertolazzi, Ortolani, Rodolfi, Saibene, Pietro Cangia, i fratelli Veronesi e Dugnani, Morandini, Frigerio, Savone, Gianni Colombini, Rigosa, Cirielli e Teodoro, comandati da Regnotti, parteciparono alla prima spedizione (sic!) di Bolzano, ove regnava quella triste situazione determinata dalla tracotanza tedesca bene alleata ad elementi bolscevichi, complice l’inetto governo di Roma”.
Così inizia a pagina 67 quel capitolo del libro dedicato a Bolzano nella “Storia del fascismo bresciano” scritto da Pier Alfonso Vecchi con la prefazione di Augusto Turati, edito da Giulio Vannini di Brescia nell’ anno VII dell’ E.F. (era fascista che comincia nell’ottobre del 1922, e l’anno sette è il 1928, ndr) il racconto della prima spedizione dei manipoli di Brescia a Bolzano per quella che è passata alla storia come la Blutsonntag, la domenica di sangue. Una narrazione molto stringata fatta sei anni dopo l’avvenimento che vide l’uccisione di Franz Innerhofer, maestro di Marlengo e il mortale ferimento di Johann Battista Daprà deceduto giorni dopo.
“In detto giorno i tedeschi, svisando una manifestazione di carattere primaverile (festa dei fiori) cercarono di dare ad essa il carattere di una cerimonia pangermanista ed irredentista e con il pretesto di una mostra campionaria, speravano di trarre da essa l’occasione di un moto rivoluzionario. Il fascismo bolzanino, saputo il retroscena della cosa, provvide tosto alla contro offensiva facendo affluire a Bolzano squadre d’azione di Verona, Brescia e Trento”.
A Bolzano i fascisti arrivarono in treno perché non erano ancora cominciati i trasferimenti dei manipoli a bordo degli autocarri Fiat 18bl. Erano quasi tutti ex ufficiali del Regio Esercito che avevano combattuto sul Piave nei reggimenti degli Arditi, dei Bersaglieri e dei Granatieri e che furono fra i primi ad aderire al nascente fascismo. Mancavano 18 mesi alla Marcia su Roma, Benito Mussolini non era ancora il Duce, però era un autorevole giornalista, editore e direttore de “Il Popolo d’Italia” un importante quotidiano politico fondato dal futuro capo del fascismo nel 1914 per dare voce agli interventisti che volevano la guerra all’Austria. Nel 1922 era diventato l’organo del Partito Nazionale fascista per cessare le pubblicazioni il 27 luglio del 1943.
Ancora dal libro “Storia del fascismo bresciano”: “Giunti con i treni del mattino, agli ordini del capitano Achille Starace i fascisti si divisero in vari gruppi all’interno della città. Divelsero e abbatterono prima stemmi e segni del cessato impero incontrati [nel tragitto] dalla stazione al centro urbano, scontrandosi quindi con il corteo che procedeva, banda in testa, in costume tirolese ed al canto di inni irredentisti con grida ostili all’ Italia. Avvenuta la rottura di una lapide [sulla facciata] dell’ ex Hotel Kaiserkrone ad opera di Bertolazzi [ma forse era Erminio Bertolotti] e Companni, [ma forse era Compagnoni] che ricordava la permanenza dei reali d’Austria [in quell’albergo], alle provocazioni del corteo tedesco che sopraggiungeva dalla piazza della Frutta, i fascisti risposero con il grido di assalto A noi! L’italico urlo fu accolto da revolverate sparate da parte avversa alle quali le Camicie Nere rispondevano con altre revolverate ed infine, vista la preponderanza dei tedeschi, [i fascisti] lanciarono alcune bombe a mano. Il coreo tirolese si sciolse subito con un fuggi fuggi generale mentre un morto, un maestro di banda, rimaneva sul terreno. Anche da parte dei fascisti vi furono alcuni più o meno gravemente feriti. Percorsero quindi le squadre [le vie della] città, che era rimasta in una apparente calma finché alla sera le squadre di Verona, Brescia e Trento ripartirono. Allora vi fu il segnale del contrattacco tedesco, spalleggiato dal sovversivismo italiano: infatti la mattina dopo venne proclamato lo sciopero generale e [cominciò] la caccia al fascista e per tutta la giornata si verificarono scene brutali e selvagge”.
Il libro paragona l’assalto squadrista nelle vie di Bolzano a quanto era accaduto pochi giorni prima a Calcinato, borgo fra le province di Brescia e Mantova quando i fascisti attaccarono una “Cooperativa rossa” e si trovarono di fronte ad una folla di braccianti agricoli ben decisi a difendere i frutti del loro lavoro. Spiega l’autore del libro come a Calcinato “la folla dei bolscevichisti inseguita da nuove scariche di rivoltella si diede alla fuga gettandosi per la campagna. La lotta durò fino alle mezzanotte, tutte le vie del paese furono spazzate e le osterie vuotate [dalla presenza] dei sovversivi. Al tocco i fascisti erano padroni del campo”.
L’autore del libro ci descrive l’abbigliamo delle squadre piombate su Calcinato identico a quello dei fascisti in trasferta a Bolzano. “Vestivano berretti, cravatte svolazzanti, pantaloni alla zuava, bastoni e nascoste rivoltelle l’ espressione dello squadrista” che non vestiva ancora la camicia nera che con la giubba aperta e il fez nero, la divisa degli Arditi. L’ autore scrisse quelle note quando il fascismo si era già ampiamente radicato. Però lo “squadrismo” era presente già nell’autunno del 1919 e la camicia nera era il simbolo di quelle squadre in azione nella Padania. Forse le camicie nere non vennero indossate nella marcia su Bolzano perché i ferrovieri, che erano in maggioranza socialisti e anarchici, scorgendo nelle stazioni di Brescia e Verona i fascisti, avrebbero proclamato attraverso i messaggi telegrafici, lo sciopero del personale delle ferrovie facendo fallire la spedizione.
Di certo nelle vie di Bolzano, cantarono i loro inni: “Il sol dell’ avvenire spuntava il primo maggio, era dell’ente autonomo a forma di formaggio. Oli, petroli, lisciva e saù [sapone], di bolscevichi a ( e qui si inseriva il nome della città da dove proveniva il manipolo ) non ne vogliano più”. Altre grida erano quelle degli Arditi del Piave, del Montello, del Grappa; sovrano l’ urlo “A Noi” che determinava la corsa in avanti, o quello d’annunziano di “Eia, eia alalà”. I fez erano neri per quanti avevano fatto la guerra nelle Fiamme Nere e cremisi con fiocco azzurro per i Bersaglieri. Molti portavano l’elmetto d’acciaio.
Nel citato libro, Alfonso Vecchi cerca di dimostrare che i tirolesi – a Bolzano i civili italiani erano davvero pochi e probabilmente era trascurabile la presenza bolscevica – fossero d’accordo con “l’inetto governo di Roma”. Il riferimento era a Giovanni Giolitti nato a Mondovì il 27 ottobre del 1842, cinque volte presidente del Consiglio dei ministri, il più longevo della storia italiana dopo Benito Mussolini. Nel 1920 concluse con un’azione militare l’impresa dannunziana di Fiume per essere travolto dalle crescenti turbolenze politiche, sociali, economiche del primo dopoguerra quando i reduci tornarono nelle città per trovare le fabbriche ferme e alle prese nel difficilissimo quanto repentino passaggio dall’ industria bellica a quella civile, cambiamenti sociali, il costo della vita cresciuto a dismisura, molti posti di lavoro occupati dalle donne. Scoppiò in tutte le località del Regno il problema dell’impiego negli uffici delle poste e telegrafi che promesso agli invalidi di guerra, rimaneva in mano alle donne, in gran parte assunte nel corso del conflitto per sopperire alla mancanza di uomini spediti al fronte e soprattutto perché madri, sorelle, mogli e fidanzate di Caduti. Tema estremamente delicato, quasi irrisolvibile che, finita la sbornia della vittoria, contribuì a far precipitare la nazione in quella crescente violenza nella quale in fascismo ebbe la meglio.
Nel libro di Vecchi si racconta come la Marcia su Roma sia nata nel giorno dell’ uccisione del maestro di Marling. Proprio a Bolzano più che in altre località del Regno ci si era accorti come la Polizia, i Carabinieri Reali, soprattutto l’Esercito parteggiassero apertamente per i fascisti che scortarono i manipoli fino alla stazione, fraternizzando, proteggendoli, evitando di aprire un’inchiesta seria sull’omicidio – in vero gli assassinati furono due – sui ferimenti, i vandalismi compiuti dalle squadre.
Nel Ventuno Mussolini non pensava di calare su Roma; ma quando nell’autunno del Ventidue si decise quell’impresa ci si ricordò dei fatti di Bolzano favoriti dal comportamento cameratesco dell’Esercito. Si cercò di capire meglio il comportamento delle Forze Armate scoprendo che erano apertamente favorevoli agli squadristi e ostili al Governo. Insomma, nel silenzio del re Vittorio Emanuele III, il “re vittorioso” nella retorica imperante, il Governo non poteva contare sulle Forze Armate Questo lo scrisse Vecchi, giornalista importante in quell’epoca, cresciuto in una famiglia di forti tradizioni clericali e garibaldine, si arruola volontario nel maggio del 1915, combatte con il grado di capitano e congedato nell’estate del 1919 torna a lavorare per “La Provincia” come caporedattore per aderire nel 1920 al Fasci di Combattimento e nel 1921 al Partito nazionale fascista.






