La “solidale italianità” tradita. – 2° parte

Riprende il racconto, dopo la prima parte narrata ieri (La „solidale italianità“ tradita – 1° parte)
In effetti motivi per dubitare sui destini dell’opera pare ce ne fossero sin dall’inizio, in quanto secondo previsioni riportate da alcuni giornali locali, il costruendo borgo marinaro avrebbe in breve tempo affossato economicamente una comunità già gravata di debiti ancora prima del sisma. Tant’è che i mutui accesi dal Comune per l’acquisto dei terreni su cui sarebbe sorto il villaggio preoccupavano molti concittadini.
Nel frattempo, è da dire che un’altra vicenda, ben più grave, era venuta a scuotere i palazzi della politica nazionale italiana. A Roma, infatti, il Governo Giolitti aveva istituito verso la fine del 1906 una Commissione d’inchiesta sulla gestione dei sussidi pro Calabria a capo della quale aveva messo proprio l’ingegner Ravà, delegato esecutivo del Comitato Veneto Trentino. Dagli atti parlamentari della seduta del 16 dicembre 1907 si evince che “l’inchiesta avrebbe dovuto accertare come erano stati erogati nelle Calabrie i fondi raccolti e come si era esplicata l’opera delle autorità a beneficio delle popolazioni colpite dal disastro”.
Gli esiti della Commissione non potevano essere più disastrosi. Così si legge nei verbali: “L’inchiesta ha ben potuto accertare che in occasione del terremoto si è infranto il dovere civile dell’onestà e si è profanato il sentimento umano della carità”. Pure l’on. Luigi De Seta, che si era fatto da intermediario per la costruzione del Borgo Veneto Trentino, venne coinvolto nell’indagine in quanto il suo nome appariva più volte nei verbali della Commissione come uno di quelli che “in virtù dell’influenza politica esercitata aveva sperperato il denaro della beneficienza pubblica in favore degli abbienti”.
A nulla, comunque, valsero le conclusioni della Commissione d’inchiesta la quale laconicamente testimoniò come nei lavori di ricostruzione “le baracche erano state la provvidenza per i poveri, mentre il restauro delle case la beneficenza per i ricchi”. Alla fine non se ne fece nulla. Il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti arrivò solo a ribadire una precedente circolare che vietava in modo assoluto le riparazioni di fabbricati appartenenti a persone agiate. Questo fu l’unico risultato, anche se il provvedimento arrivò quando era ormai troppo tardi.
Tornando con la nostra storia a Cetraro, il 31 maggio 1910 il sindaco Ferdinando De Caro portava in Consiglio la notizia che i lavori erano conclusi e che il Comitato aveva stabilito la data d’inaugurazione per il 10 luglio seguente. E’ da dire, però, che non tutto fino a quel momento era filato liscio. Infatti, lo storico Leonardo Iozzi, in una sua ricerca pubblicata nel 1999, ricorda come fin dal settembre del 1909 la controversa questione del Borgo San Marco (così venne chiamato il villaggio) avesse coinvolto l’intera comunità, a tal punto che la polemica si trasformò in lotta feroce e calunniosa.
Il mensile “Cetraro Nova”, soffiando sul fuoco, alimentava ulteriormente lo scontro con la Giunta comunale screditando l’opera e parlando addirittura “di assurde mostruosità edilizie, di triste opprimente sistema cellulare, di porcili, di case per una colonia di reclusi, di case con stanze come celle carcerarie, di stanzette soffocanti”.
Che la polemica innescata da “Cetraro Nova” fosse un pretesto di bassa lega e la costruzione del Borgo lo strumento per sfiduciare politicamente gli amministratori comunali è evidente, e ciò è dimostrato da un altro giornale, “L’Aurora”, che nelle stesse settimane uscì sostenendo un parere esattamente contrario: “La tecnica, per quanto riguarda l’esecuzione e la bontà dei materiali, è d’una scrupolosità sorprendente. Esteticamente, per chi lo osserva dall’alto, il Borgo è armonioso nella sua semplice e spigliata bellezza”.
Alla fine, le continue polemiche e gli attacchi sconsiderati contribuirono al deterioramento dei rapporti fra il Comitato e l’Amministrazione locale. A luglio, infatti, non si fece nessuna festa d’inaugurazione. Il 10 novembre il giornale “L’Aurora” usciva con una notizia inaspettata: “La festa inaugurale, tanto attesa e tanto perseguitata dal fato, non avrà più luogo, ovvero si è già svolta a Roma in Montecitorio. Colà l’impresa costruttrice ha creduto convocare il Comitato esecutivo per consegnare alla sagace direttiva di esso, bello e finito, il nostro borgo S. Marco, che è ora la speranza più promettente della cittadinanza!” Tuttavia, nessuna assegnazione ebbe luogo in quei mesi, in quanto la martellante campagna denigratoria aveva suscitato dubbi e scoramento nei poveri pescatori, sempre più indecisi sulla scelta di una nuova abitazione.
Si dovette attendere l’estate del 1912 perché qualcuno accettasse di entrare in quelle case chiuse da più di due anni. Costoro, però, il giorno dopo restituirono le chiavi affermando che “era impossibile abitarvi perché a imposte chiuse si avvertiva un enorme calore”. Ma non era tutto. I soliti diffamatori, in un impeto distruttivo, arrivarono al punto di sostenere che a Cetraro la classe marinara non esisteva più perché estinta con le emigrazioni verso il Sud America, e che quindi, non potendo dar luogo a quanto previsto dallo Statuto, si doveva incentivare l’arrivo di potenziali assegnatari da fuori. Eppure documenti inoppugnabili confermano ancora oggi che in quegli anni erano più di 40 i pescatori in attività e che una decina rientrarono al più presto dall’Uruguay con le loro famiglie non appena seppero del villaggio in costruzione.
Il Comitato – disorientato di fronte a così tanti attacchi strumentali – per non lasciare nulla di intentato decise comunque di intervenire sulle case per far eseguire numerose migliorie. Poi, il 6 novembre 1915, deliberò lo scioglimento dell’Ente e l’assegnazione del patrimonio del Borgo al Comune di Cetraro. Era la fine della collaborazione e del progetto di solidarietà veneto-trentino.
Per più di dieci anni le palazzine di Borgo San Marco rimasero abbandonate all’incuria del tempo, fino a quando, nell’ottobre del 1922, il Consiglio comunale non deliberò la loro vendita per appianare i deficit di bilancio. L’importo complessivo che l’operazione immobiliare portò nelle casse del Comune di Cetraro fu pari a 274.000 lire, “guadagnando” in tal modo sugli originari costi del terreno e su quanto offerto dal Comitato Veneto Trentino un’ulteriore somma di 75.000 lire, più di 100 mila euro attuali, ma con il potere di acquisto di quei tempi. Purtroppo con quei soldi non venne mai realizzato nessun edificio pubblico, né la Casa del Marinaio, già promessa in precedenza.
Leonardo Iozzi, ricercatore già citato, scrisse nel suo saggio: “Le diciotto palazzine, costruite per essere “concesse in locazione ai meno abbienti” e “preferibilmente ai marinai-pescatori”, finirono, con regolari atti di vendita nelle mani della piccola e media borghesia e dei professionisti”.
Così, alla fine di quest’amara storia, al di là delle valutazioni storiche, rimane il fatto inconfutabile che quegli amministratori comunali si resero responsabili di un atto estremamente grave sotto l’aspetto morale e l’impressione che si ricava leggendo quei documenti è che la vicenda fu gestita ad arte da diversi soggetti, ognuno interessato per proprio conto a ricavarne qualcosa.
Ma ciò che lascia ancor più l’amaro in bocca è il fatto che non furono solo i muri che fecero gridare allo scandalo in quegli anni, ma fu la stessa idea di solidarietà a venire compromessa, una solidarietà giunta da molto lontano che però alla fine venne delusa, offesa e tradita.
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