Werk Valmorbia: un forte, due bandiere – 2° parte

E di Valerio Micheletti, il protagonista austriaco di questa storia, cosa sappiamo? Il Micheletti – in quel momento anche lui a guardia del forte – in un racconto fatto dopo la guerra al parroco di Valmorbia, rivelerà un avvenimento sconcertante che verosimilmente contribuì a determinare l’esito di quella ardita offensiva. Un resoconto dettagliato narrato in prima persona, del tutto sconosciuto alla storiografia ufficiale.
“Io ero uno di quelli – riferì Micheletti – che per primi ebbero la sorpresa di vedersi puntare un fucile con l’ordine di arrendersi. All’alt d’arresto del finto austriaco, risposi: «Sior si» alzando le mani. «Sei italiano?» – mi chiese quello – «Sior si, dal Trentim» risposi. «Bene, allora devi sapere il tedesco – fece ancora lui – tu resta qui che mi farai da interprete».
E cosi Micheletti vide tutti i suoi commilitoni, uno ad uno, arrendersi ed essere avviati in silenzio sotto la minaccia delle armi, assieme a tutti gli altri, sul piccolo pianoro davanti al forte. Fin qui, è da dire, tutto corrisponde con quanto scritto da Giovanni Givone nelle sue memorie.
“Prima di tutto gli italiani tagliarono i fili che uscivano dalla sala del Comando – racconta ancora il Micheletti non sapendo che l’autore di quel gesto era stato proprio Giovanni Givone – poi sistemarono davanti alla porta ferrata una mitragliatrice e quindi il Capitano intimò a voce alta di arrendersi. Dagli austriaci non venne alcuna risposta. Il Capitano ripeté l’intimazione. Ancora nessuna risposta. Allora diede ordine di aprire il fuoco con una raffica rabbiosa che poco dopo convinse chi era all’interno ad arrendersi e ad uscire a mani alzate. Tutti vennero disarmati e aggregati al gruppo di noi prigionieri. Fummo contati ad alta voce – dice il Micheletti – eravamo in 273, un numero che non dimenticherò mai.”
Come detto, anche Giovanni Givone era lì presente in quel momento e le sue parole annunciano tuttavia che qualcosa per gli italiani non andò per il verso giusto. Riferirà, infatti: “Ma ahimè! Fu così che la poca abilità dei nostri superiori nel farci occupare la posizione e la cretinaggine di alcuni ci cambiano la vittoria in una grave sconfitta. Incomincia il capitano col mandarci all’assalto quando un nemico da assalire non c’è ancora. Al rumore della mitragliatrice la guarnigione si desta e i rincalzi accorrono in tutta fretta all’aiuto di questi.”
In effetti, pare che se gli italiani avessero circondato il forte prima di intimare la resa, probabilmente le cose sarebbero andate diversamente.
Nel frattempo il Micheletti, racconta: “Poco dopo, saranno state ormai le 5 del mattino e iniziava ad albeggiare, noi austriaci presi prigionieri venimmo avviati in colonna verso l’abitato di Valmorbia sotto la vigilanza armata di due soldati italiani davanti e due in coda. E ora scoppia la tragedia. Quando in fila fummo all’altezza delle bocche del Forte, seppi in seguito che due miei commilitoni, un tenente austriaco e un caporale sud- tirolese – un certo Manica, da Pedersano – si affacciarono alla bocca prospiciente il sentiero con una mitraglia. Si resero conto dalla situazione e subito il caporale aprì la mitragliatrice contro la colonna dei prigionieri. «Fermati, – disse il tenente – sono dei nostri!». «Ne sei sicuro? Se anche fosse così – ribatté il Manica – c’è l’ordine di sparare sia sui prigionieri come sui disertori».
Il fattore sorpresa ormai era svanito e la confusione si impossessò di chi poco prima sembrava il vincitore. Prosegue l’italiano Givone: “Una parte della guarnigione del forte non coinvolta nell’azione perché occupava il settore nord, riuscì a rompere l’assedio a prezzo di fortissime perdite, sia fra gli assedianti che fra i prigionieri austriaci, ristabilendo così il controllo del forte. E qui constatai i terribili effetti della paura: i pochi soldati che con me avevano occupata l’altura, si diedero quasi tutti alla fuga”.
E il Micheletti continua: “Sotto il fuoco amico, tutti si buttarono a terra mentre la mitraglia non cessava di sparare e non servirono le nostre urla disperate per farci riconoscere.” L’angosciante descrizione del soldato austriaco, appiattito in un fosso, prosegue raccontando che sentiva le pallottole che battendo sulla roccia soprastante gli facevano piovere addosso sassi e ghiaia. Poi prosegue: “La scena non la potevo vedere, ma le urla e i pianti si sentivano da straziare il cuore. Poi, poco a poco, non si sentì più nulla, solo qualche gemito sempre più flebile. Uno dei pochi ancora vivo alzò la testa per far cessare la carneficina, ma fu rapidamente colpito dalla raffica crudele.”
Ebbe così inizio un caos incredibile in cui gli austriaci, da tutte le bocche del forte, sparavano sugli italiani, gli italiani sugli austriaci ed entrambi pure sui propri commilitoni. Una situazione infernale dove ognuno cercava una via di fuga per salvare la pelle, chi scappando a precipizio lontano dal forte, chi cercando, all’opposto, di rientrarci.
Dei nostri protagonisti, Giovanni Givone verrà ferito e poi fatto prigioniero. Valerio Micheletti, rimasto indenne si riunirà al suo reparto. Nei dintorni e sulla strada per il forte, invece, restarono alcune centinaia di soldati di entrambi gli eserciti. Una carneficina di corpi abbandonati in una “terra di nessuno”. Quel giorno e i successivi, infatti, nessuno poté avvicinarsi al campo di battaglia. Un testimone, infatti, riferì che „Il cannone italiano del Monte Zugna continuò a sparare senza pietà sui morti e sugli agonizzanti, cosicché il raccoglierli ed il seppellirli era impossibile. E coloro che potevano essere ancora vivi, dovettero soccombere nella bruciante calura estiva, fossero austriaci od italiani.”
A tal proposito, dirà successivamente Micheletti: “Fu possibile solo ai primi di luglio far arrivare dei carri con buoi e cavalli per caricare i cadaveri. Con la maschera al naso per il fetore che essi per il gran caldo emanavano. E vennero trasportati nel cimitero di Volano e sepolti in due fosse comuni, una per i soldati austriaci e una per quelli italiani”.
In effetti, da quanto ne sappiamo, i resti dei soldati italiani furono traslati a Rovereto dopo il 1938. Sorte diversa, invece, ebbero le salme dei caduti austriaci, le quali vennero esumate probabilmente ancora prima della fine della guerra e trasferite ai loro paesi d’origine. Tutto ciò fu confermato da testimonianze di abitanti del paese che ricordavano che per far entrare le salme nel cimitero venne addirittura abbattuto il muro di cinta, circostanza dimostrato da una fotografia, ritrovata recentemente da chi scrive, in un archivio austriaco, che ritrae appunto quella scena.
Nei documenti ufficiali italiani l’episodio del tragico assalto verrà semplicemente liquidato in poche righe: “Il 29 giugno il 72° Fanteria tentò senza successo la conquista del Forte Pozzacchio”. Da parte austriaca, invece, una rapida inchiesta della Procura militare decretò il non luogo a procedere nei confronti dei militari del 1° Reggimento Landesschützen, i quali avevano comunque riscattato con il loro comportamento gli errori compiuti durante l’occupazione del forte da parte italiana.
Dicevamo, all’inizio di questa storia, di Eugenio Montale, quello che in seguito diventerà un importante scrittore a cui molti anni dopo verrà conferito il premio Nobel per la letteratura. Egli rimase in Vallarsa a combattere la sua guerra di posizione sino al novembre del 1918, sino a quando, cioè, per l’esercito Austro-Ungarico iniziò la disfatta.
«Il 3 novembre del 1918 – scriverà Montale – fui uno dei primi soldati italiani a entrare a Rovereto. Non credo di aver mai visto un caos come quello: porte e finestre sfondate, macerie dappertutto, bombe che scoppiavano, incendi e, ora qua, ora là, i colpi dei cecchini che gli austriaci avevano lasciato indietro per ostacolare la nostra avanzata. Andammo avanti, sulla strada per Trento. In un paese, non saprei più dirne il nome, assistetti alla fucilazione di un nostro soldato, colpevole di saccheggio, credo che avesse rubato un orologio. Il ragazzo gridava disperato al plotone d’esecuzione: «Non fucilatemi! Sono figlio di un professore di geografia». No, non mi fece un grande effetto. Ma che cosa poteva fare effetto in tali circostanze? Era come un sogno, un grande sogno in cui tutto poteva accadere.”
Montale in seguito non ritornò mai più volentieri sulle atrocità della guerra a cui aveva assistito. Tuttavia quando talvolta dava voce a quei ricordi, cercò sempre di evitare i momenti drammatici lasciando, invece, spazio a scene che potevano essere vicine a quelle di una normale vita quotidiana: alla natura incontaminata della Vallarsa, al profumo della terra, ai colori dei boschi, ai cieli stellati, al silenzio della notte…
“Ora forse dovrei parlare della battaglia finale e della vittoria – lasciò scritto nelle sue memorie – ma per me i ricordi più indimenticabili sono quelli di certe notti a Valmorbia, nella buona stagione, che passavo sdraiato sull’ingresso della mia grotta. Con la luna sembrava che la valle salpasse. In basso sentivo il torrente Leno che mormorava, roco. Udivo un trepestio insolito, un odore acre mi pizzicava il naso: erano delle volpi venute a farci visita; così, senza accorgersene, si arrivava all’alba.”
Dopo sette anni da quegli eventi, Eugenio Montale affiderà ad una lirica l’unico ricordo di quel periodo da lui trascorso qui, nella nostra Terra, durante la prima guerra mondiale.
Valmorbia
Valmorbia, discorrevano il tuo fondo
fioriti nuvoli di piante agli àsoli.
Nasceva in noi, volti dal cieco caso,
oblio del mondo.
Tacevano gli spari, nel grembo solitario
non dava suono che il Leno roco.
Sbocciava un razzo su lo stelo, fioco
lacrimava nell’aria.
Le notti chiare erano tutte un’alba
e portavano volpi alla mia grotta.
Valmorbia, un nome e ora nella scialba
memoria, terra dove non annotta.






