Werk Valmorbia: un forte, due bandiere – 1° parte

Nell‘aprile del 1917 in Vallarsa, ai confini meridionali del Tirolo, in quella che all’epoca era una provincia dell’Impero Austro-Ungarico, la Prima Guerra Mondiale era terribilmente nel vivo e qui, in questa valle aspra e verdissima, a precipizio sul torrente Leno, si fronteggiavano l’esercito austriaco e quello italiano: il primo per mantenere la posizione e contrastare l’offensiva del nemico, il secondo per tentare di avanzare verso Rovereto e la Valle dell’Adige.
In quei giorni, un giovanissimo sottotenente del 158° Fanteria Brigata Liguria giunse spaesato ai comandi di un piccolo avamposto italiano. Quel giovane ufficiale, del tutto inesperto di combattimenti, veniva da Genova e il suo nome era Eugenio Montale. Il reparto a cui venne assegnato si trovava fra il monte Corno e il piccolo paese di Valmorbia. «In basso c’era un fiume – ricorderà Montale in una lettera, dopo la guerra – noi però si stava a mezza costa, fra le rocce, perché il fondo a precipizio era inabitabile, vi si rovesciava un po’ di tutto, rocce, sassi, fango, schegge, bombe, e pure cadaveri, che molte volte non potevano essere recuperati».
Quell’anno la guerra aveva dato un po’ di tregua ai due eserciti portandoli a consolidare le rispettive posizioni in una specie di lungo, reciproco assedio. La prima linea di difesa del Tirolo iniziava da Riva del Garda, sormontava in trincea le montagne fin verso Rovereto, poi proseguiva con i forti di Matassone e di Pozzacchio che sbarravano la Vallarsa, per salire, infine, sul gruppo del Pasubio verso gli altopiani di Folgaria e Lavarone.
I soldati si osservavano a distanza, talvolta però partiva da parte italiana un attacco mentre, dall’altra, l’artiglieria rispondeva immediatamente. Tuttavia, alla fine, i capisaldi rimanevano pressoché gli stessi, avanzando o retrocedendo in misura limitata, appoggiandosi molto a formazioni naturali o in trincea. Insomma, cambiava poco a parte il fatto che sul terreno rimanevano sempre morti e feriti.
L’anno precedente era stato molto peggio. Il 1916, infatti, era stato l’anno dove in quel teatro di guerra gli italiani avevano perso più di 3500 soldati nel tentativo inutile di conquistare terreno. Tutti ragazzi, tutti giovani alla pari del sottotenente Montale che all’epoca non aveva ancora compiuto i vent’anni.
Giovani come anche i protagonisti della storia che stiamo per raccontare, ma pure come i 12 milioni di soldati che vennero sacrificati sull’altare di quella carneficina durata quattro anni.
Il primo protagonista di cui vogliamo parlare è un soldato austriaco del K.u.K. 1° Landesschützen Reggimento Trento che si chiama Valerio Micheletti. Il secondo invece è un soldato italiano, un commilitone di Montale di nome Giovanni Givone, piemontese, soldato semplice del 72° fanteria della Brigata Puglie.
Entrambi hanno nomi italiani, entrambi parlano italiano, ma sono nemici. Il 24 maggio del 1915, infatti, l’Italia aveva dichiarato guerra all’ex alleata Austria (e quindi anche al Tirolo di lingua romanza), tradendo la precedente alleanza e assumendo così il ruolo dell’aggressore nel momento in cui ad essa sembrava opportuna una partecipazione al conflitto in vista di una facile vittoria. Alla fine, come sappiamo, per l’Italia la vittoria arriverà, ma la guerra non sarà stata affatto semplice, né tanto meno rapida. A migliaia avrà portato via a povere famiglie, sia austriache che italiane, i propri figli e mariti in quella che nel 1917 papa Benedetto XV chiamerà “inutile strage”. E ad accomunare tutti, un unico comune denominatore: l’obbedienza ai propri governi e l’incapacità di capire sino in fondo le ragioni di quell’assurda guerra.
Tornando a noi, al racconto che stiamo per fare, è da dire che c’è anche un terzo protagonista in questa storia, che però non è un soldato, ma un “soggetto” che unirà il destino di tutti quanti. Questo protagonista è una fortezza contesa dai due eserciti in campo, persino nel nome: viene, infatti, chiamata Valmorbia-Werk dai soldati dell’Impero Austro Ungarico, Forte Pozzacchio dagli italiani.
E’ curiosa, oltre che drammatica, la storia di questo gigantesco caposaldo scavato nella roccia: dopo aver iniziato a costruirlo nel 1911, la scelta del comando militare fu quella di abbandonarlo all’inizio delle ostilità per attestarsi in difesa su posizioni più arretrate, nei pressi di Rovereto. Nel giugno del 1915 fu preso dagli italiani che vi innalzarono la bandiera tricolore, mentre poco più di un anno dopo, il 22 maggio del 1916, nel corso della cosiddetta “Offensiva di Primavera“ gli italiani vennero respinti e il forte fu riconquistato.
Dicevamo delle due testimonianze, pressoché sconosciute – quella di Valerio Micheletti, austriaco, di Aldeno, e quella di Giovanni Givone, italiano – attraverso le quali intendiamo ripercorrere ciò che avvenne in una tragica notte del 1916. Vediamole insieme.
Era il 28 giugno, quando gli italiani decisero di passare al contrattacco con il proposito di giungere a Trento il prima possibile. La via più breve per arrivarci era avanzare verso Valmorbia ed espugnare Forte Pozzacchio. Venne così mandato avanti il 72° Fanteria Brigata Puglie nel tentativo di riconquistare il forte presidiato da alcune centinaia di soldati. Dopo aspri combattimenti, durati tutto il giorno, i soldati austriaci si stavano ritirando dalle loro posizioni in Vallarsa per confluire verso il forte, tuttavia, con l’arrivo della notte, gli spari e gli scoppi delle granate cessarono.
A quel punto, verso le 03.30, venne ordinato ad una decina di fanti italiani che sapevano parlare il tedesco, di intrufolarsi fra le truppe in ritirata, pare travestiti con uniformi austriache, e di risalire la piccola stradina che portava a Pozzacchio. L’ordine del Comando italiano era tassativo: sfondare le linee nemiche e prendere il forte. La consistenza delle truppe italiane coinvolte era di circa 600 soldati, un numero più che sufficiente visto che si riteneva che all’interno del forte ci fossero pochi soldati. In realtà il ripiegamento deciso dall’Alto Comando Austro-Ungarico, aveva portato numerose unità – pare ben più di un migliaio – a rifugiarsi nella fortezza di roccia viva, in attesa di nuovi ordini.
Potrà sembrare strano, ma il piano degli italiani andò alla perfezione: con il favore del buio e per il fatto che all’interno delle truppe austriache vi erano molti soldati di lingua italiana, nessuno si accorse degli intrusi. In tal modo l’avanguardia della Brigata Puglie avanzava indisturbata verso il forte. In prossimità del primo posto di blocco, quando due sentinelle intimarono l’alt, gli italiani risposero in perfetto tedesco, ma subito dopo, spianando i fucili, le colsero di sorpresa, facendole prigioniere. Poi, con l’arrivo dei rinforzi, la stessa sorte capitò anche alle altre guardie. Racconterà Givone nelle sue memorie: “Ormai siamo sul forte, dal nostro primo giungere subito tutti vediamo che tutto ci ha facilitato quest’impresa e ce ne rallegriamo di cuore pensando che questa forse sarà la giornata più bella e indimenticabile per il nostro reggimento, per la nostra vita. Tutta la guarnigione dorme, cosicché l’avanguardia è con facile compito che penetrata nei rifugi scavati nella roccia e riesce a fare un centinaio di prigionieri.”
Il Forte Pozzacchio, concepito per resistere al tiro degli obici da 305 mm., le artiglierie più distruttive disponibili alla vigilia della guerra, sembrava ormai in mano al nemico grazie ad un ingegnoso stratagemma.
Il racconto di Maurizio Panizza, straordinario narratore di Storia e storie, continuerà domani, mercoledi 30 ottobre, sempre su UnserTirol24.






