Briciole di Memoria 122: Incapacità, inettitudine e vergognosa barbarie

Incapacità ed inettitudine dei comandi italiani durante i primi giorni di guerra del 1915 e la vergognosa e barbara strage di civili dei paesi „redenti“, uccisi dall’esercito „liberatore“ italiano perché sospettati di spionaggio o per il fatto che erano ritenuti troppo fedeli all‘ Impero Asburgico. Ad ogni capoverso ho riportato i dati dei libri da cui ho preso fedelmente le notizie qui riportate.
Il 26 aprile del 1915 una delegazione italiana firma segretamente il „Patto di Londra“ con il quale l’Italia si impegnava ad entrare in guerra entro un mese contro l’Impero Austroungarico, suo fedele alleato da più di trent’anni. Il 24 maggio le truppe italiane varcano i confini dell’Impero che in alcuni punti non sono neppure difesi dai soldati austriaci. L’Austria è impegnata con tutte le sue forze sul fronte russo e su quello serbo, e difficilmente sopporterebbe un attacco ben portato nel Tirolo e sull’Isonzo.
Al proposito, il feldmaresciallo Ludwig Goiginger scrive: “Le maggiori occasioni italiane furono perdute all‘ inizio della guerra. Una decisa manovra offensiva italiana all’inizio della guerra, tanto sulla fronte dell’Isonzo quanto su quella del Tirolo avrebbe potuto avere assolutamente successo. Noi avevamo soltanto una debolissima copertura di fanteria, e niente dietro di essa. Le probabili conseguenze sarebbero state queste: urto fino al bacino di Lubiana e rispettivamente fino al Brennero; interruzione delle comunicazioni in Val Pusteria e con ciò isolamento completo del Tirolo meridionale e di Trento. Credo perfino che un’offensiva eseguita con energia avrebbe ottenuto tutte le mete di operazione: Trieste, Gorizia, Lubiana, Villach e perfino Innsbruck, senza gravi perdite”.
Carlo De Biase, L’Aquila d’oro. Storia dello Stato Maggiore italiano 1861-1945 (Milano: Edizioni del Borghese, 1970)
L’inizio è invece caotico: verso la frontiera si ha un ammassamento disordinato di battaglioni, di batterie, di convogli, di treni carichi e vuoti, di veicoli e cavalli, una inestricabile massa di uomini senza organizzazione. Allo scoppio della guerra ci sono lungo tutta la frontiera solo 6 divisioni nemiche di cui 5 piuttosto raccogliticce. Sulla frontiera del Tirolo i soldati sono pochissimi, appartengono quasi tutti agli Standschützen (milizia territoriale composta da vecchi dai 40 anni in su e da giovani ragazzini dai 16 ai 18 anni, tutti volontari, ottimi tiratori con il fucile ma quasi per nulla addestrati). Le artiglierie, fatta eccezione per quelle dei pochi forti di recente costruzione, sono composte da pochissimi e vetusti pezzi tra cui si trovano anche obsoleti cannoni in bronzo.
La sessantina di chilometri del fronte dell’Isonzo è tenuta da 24 battaglioni: 25.000 fucilieri con l’appoggio di 100 cannoni. La maggior parte sono rincalzi appena costituiti, “un insieme di adolescenti male addestrati, di uomini di famiglia di mezza età e veterani feriti che tornavano al fronte”. Fra pochi reparti di qualità ci sono fanti del 22. reggimento reclutato in Dalmazia e comandati dal serbo bosniaco Stanko (Stanislav) Turudija: è la storica formazione erede degli schiavoni di Venezia, una delle più accanite nel combattere per la propria terra, che ha partecipato a tutte le guerre risorgimentali contro l’Italia.
La fama di straordinario combattente di Turudija e dei suoi “Leoni dell’Isonzo” oltrepassa gli schieramenti. Quando viene catturato con pochi superstiti del suo reggimento decimato sul Sabotino nel corso della sesta battaglia dell’Isonzo, il duca d’Aosta lo vuole incontrare personalmente per stringergli la mano e per concedergli il raro privilegio di conservare la sua spada anche in prigionia, nel campo di Nocera Umbra, fino alla fine della guerra.
Il 24 maggio gli italiani hanno a disposizione 4 Armate, con 14 Corpi d’Armata: 36 divisioni di fanteria, 4 di cavalleria e due gruppi alpini: 600 mila uomini in prima linea e 334 mila nelle retrovie. Nonostante i ritardi sui programmi e le inefficienze, la differenza con le dotazioni austriache è abissale: ci sono 1.799 cannoni di medio calibro, 192 obici pesanti, 123 cannoni da fortezza, 5 cannoni antiaerei, 15 squadriglie di aeroplani, 10 aerostati e 5 dirigibili. Scarseggiano le mitragliatrici (618 in tutto) perché la Gran Bretagna non ha voluto darle se non a ostilità iniziate; prima, durante le trattative, lord Horatio Herbert Kitchener aveva detto: “Nessun’arma all’Italia, finché non sappiamo contro chi vuol sparare!”
Carlo De Biase, L’Aquila d’oro. Storia dello Stato Maggiore italiano 1861-1945 (Milano: Edizioni del Borghese, 1970
Nelle memorie di Orlando i numeri sono leggermente diversi: 438 battaglioni e tre divisioni di cavalleria contro 122 battaglioni austriaci, cioè “una forza cinque volte superiore e con truppe incomparabilmente più fresche”
Vittorio Emanuele Orlando, Memorie 1915-1918 (Milano: Rizzoli, 1960)
Si ostenta a parole una eccessiva fiducia nelle proprie forze ma si agisce con una prudenza che rasenta il ridicolo, e si perde una straordinaria occasione di acquisire posizioni dominanti o – addirittura – di sfondare le linee austriache con risultati difficilmente ipotizzabili. Luigi Cadorna è ancorato alle tattiche che aveva illustrato in uno studio pubblicato nel 1885, non ha fantasia né idee brillanti: nei suoi progetti si sarebbe dovuto fare una gioiosa marcia su Lubiana e poi chissà fino a dove, in realtà nulla è predisposto per un piano del genere. Gli italiani avanzano timidamente, bastano le fucilate di qualche Landwehr (miliziano) e gli insulti dei contadini a farli rallentare se non fermare. Pietro Frugoni, primo comandante della II Armata riferisce senza pudore che si temono attacchi della Landsturm, la milizia territoriale, e che i contadini possano utilizzare armi nascoste dagli austriaci. Una sorta di Gladio ante litteram.
Citato in: Marco Pluviano e Irene Guerrini, Fucilate i fanti della Catanzaro. La fine della legenda sulle decimazioni della Grande Guerra (Udine: Gaspari Editore, 2007).
Si accavallano informazioni sbagliate e fantasiose sulla presenza di preponderanti forze austriache. Le truppe Asburgiche di Cervignano e di Strassoldo (che contrastano l’avanzata italiana) sono composte in tutto da 118 uomini fra gendarmi, guardie di finanza e militi della Landsturm: costruiscono barricate con l’aiuto della popolazione, tagliando i cavi telefonici, interrompono ponti e strade, e sparano qualche schioppettata. L’esercito austriaco “vero” ha tutto il tempo per organizzare le difese sulle prime pendici montuose.
Sara Milocco e Giorgio Milocco, “Fratelli d’Italia”. Gli internamente degli italiani nelle “terre liberate “ durante la Grande Guerra (Udine: Gaspari Editore, 2002)
Si ha il primo di una lunghissima serie di comandanti “silurati”: è il generale di cavalleria Nicola Pirozzi, che doveva precipitarsi sui ponti dell’Isonzo, ma non ci è mai arrivato.
Eugenio De Rossi, La vita di un ufficiale italiano ( Milano: Treves, 1920)
Le truppe avanzano con lentezza e circospezione che rasenta la viltà: si ha paura di tutto, delle spie, dei cecchini, dei preti, della gente. Non si sa nulla della collocazione e degli spostamenti degli austriaci e non si ascolta nessuno, neppure i profughi irredenti, forse perché non ci si fida di “traditori”.
Anche qui, l’incapacità di far avanzare i battaglioni contro i pochi gendarmi austriaci allora presenti sul confine friulano e la freddezza delle popolazioni nei confronti delle truppe italiane occupanti crearono nei comandi la psicosi e la paura di vedere dappertutto spie. Così a S. Vito al Torre un povero carrettiere, appartatosi in un campo per un bisogno fisiologico, venne fucilato; a Massa tre furono i cittadini giudicati sommariamente, a Villesse il tristemente famoso maggiore Citarella faceva ammazzare sei innocenti ostaggi accusati di spionaggio, altre esecuzioni a Lucinico, a Monfalcone, mentre una sessantina di parroci, cappellani e curati, la quasi totalità dei preti dei paesi occupati, veniva arrestata e internata in Italia, dal Piemonte alla Sardegna. Qualche esempio: don Justulin, parrocco di Visco, un paesino a due passi dal confine, solamente perché il primo giorno di guerra aveva suonato le campane, venne accusato d’intesa col nemico e trascinato a Palmanova, coperto d’insulti, con un occhio pesto e la tonaca strappata per i colpi ricevuti; don Rosin, vicario di Crauglio, fu costretto a scavarsi la fossa nel cortile della canonica e solo quando ebbe terminato il lavoro, lo scherzo ebbe termine e venne tradotto in carcere; don Zanolla, catechista di Cormons, fu preso a scudisciate da un ufficiale dei carabinieri; don Kren di Monfalcone fu legato su un asino aizzato a correre in piazza tra le urla e le risate dei soldati; e gli esempi potrebbero continuare”.
Nino Agostinetti e Pierantonio Gios, “Introduzione” a: Andrea Grandotto, Diario di un prete internato 1915-1916 (Roana: Istituto di Cultura Cimbra, 1984)
Anche in Tirolo, l’entrata nei confini dell’Impero Austriaco dell’esercito „liberatore“ italiano, fu accompagnata da fucilazioni di civili innocenti, a causa della psicosi dei comandi italiani che vedevano in tutti i cittadini da redimere, delle potenziali spie.
Dalle memorie del parroco di Olle in Valsugana ci viene raccontata la triste storia di un vecchio contadino che, mentre era intento a falciare il suo prato, vide dei soldati italiani che, curvi dietro un muro a secco di un prato, procedevano nella sua direzione. Il poveretto si soffermò a guardarli, mentre si era messo ad affilare la falce con la pietra che portava appesa alla cintola. In men che non si dica, i soldati uscirono dal loro precario nascondiglio, presero il contadino e lo portarono in un maso dove, dinnanzi al loro capitano, lo accusarono di spionaggio,essi sostenevano che il vecchio, dopo averli visti, si fosse messo a fare dei segnali luminosi agli austriaci sul Ciolino,cima montuosa dall’altra parte della Valsugana, facendo rimbalzare i raggi del sole sulla lama della falce. Il malcapitato fu processato seduta stante, portato fuori dal maso e fucilato come spia mentre piangeva e chiedeva pietà dicendo che era l’unico uomo rimasto in famiglia e da lui dipendeva il sostentamento di questa .
Sempre alle Olle fu fucilato anche Giosuè Giacometti: „Ucciso dai soldati italiani,oltre che da una ferita da arma da fuoco,ne aveva molte altre al petto al ventre prodotte con la baionetta“ ed ancora qui riporto la vicenda di Lino Torghele, un giovane handicappato di Pianezze; ritenendolo una spia, i soldati italiani: „Lo legarono alla coda di un cavallo e lo strascinarono sulla strada fino a Villa; qui fu staccato, naturalmente morto“
Miorelli A.,“Trentini internati dall’Italia“ (1915-1920),
In Annali Museo Storico Italiano della Guerra, n. 17/22,2009-2014,pag 203,239,240.
Questo purtroppo è solo l’inizio della tragica storia che sconvolse la nostra terra invasa dal „redentore“ italiano. Il racconto continua nella prossima puntata di „Briciole di Memoria“






