Un libro al mese: Malati di sogni 5°
Meiner Heimat die Treue
“Schaise, schun mittòg und koaner hòt ihn gsechn! Merda, già mezzogiorno e nessuno l’ha visto!” – “Visto chi?” chiese Astrid, mentre agganciava il filtro per l’ennesimo caffè. L’Americano era già scattato, il volto improvvisamente teso e la mantella in mano. – “Wie spàat hòsch ihn zualetz gsechn? A che ora l’hai visto l’ultima volta?” Ora, a parte due walschen che sorridevano imbarazzati, tutti avevano capito. – “Um òchte bai der tònkstell. Hot miar gsoogt er giehe zuar Rochus Kapelle. Verso le otto al distributore. Mi ha detto che faceva due passi fino alla cappella di S. Rocco.” rispose Herbert quasi strozzandosi con le parole, mentre l’Americano già varcava la porta. Sull’altro lato della strada Helene stava scendendo i gradini della biblioteca. – “Khim Nène, der òlte kämpfer!” Vieni Néne, il vecchio combattente! – la chiamò con un gesto deciso.
Fu Helene a notare il lampeggiante blu seminascosto dagli abeti che costeggiavano la strada all’ultima curva prima del distributore. Carabinieri e ambulanza ripartirono assieme, un istante prima che loro arrivassero. Sullo slargo all’esterno della curva erano evidenti i segni di una violenta sbandata terminata contro un muretto da dove il veicolo era ripartito zigzagando ancora per la fretta. La neve insanguinata e il bastone spezzato di Sepp raccontavano il resto (…)
Se l’era immaginato molto diverso l’ultimo saluto al grande vecchio, con un sole sfavillante e una folla straripante, bandiere e stendardi e discorsi non tutti di circostanza. Invece, in quel mattino di fine febbraio, anche il sole si era velato a lutto. L’Americano si disse che troppi in valle avevano dimenticato, ritenute più importanti le loro occupazioni quotidiane, soprattutto i giovani, che senza quelli come Sepp Langer non avrebbero forse mai goduto il loro fin eccessivo benessere.
Il discorso del Landeskommandant era stato breve e vibrante e all’Americano parve di intuire nelle ultime parole un accorato richiamo all’unità. “Lass uns das erinnern, nicht vergessen! Fate
che ricordiamo, non dimentichiamo!” Dio se fossero resuscitati Andreas Hofer, Peter Mayr, Sepp Kerschbaumer, Luis Amplatz, Georg Klotz e tutti coloro che nei secoli avevano dato la vita per la loro gente e la loro Heimat! Lo stesso Sepp Langer si stava rivoltando dentro la sua bara di cirmolo.
Sepp Langer aveva sacrificato solo sé stesso e qualche traliccio. Con il carcere e la tortura, qualcuno aveva cercato di farlo passare per assassino, avrebbe fatto tanto comodo ai suoi nemici, a quei tanti fascisti rimasti tali, e ancorati dentro le Istituzioni, anche dopo che la Costituzione Italiana ne aveva decretato l’illegalità. A parole.
Sei rimasto un sognatore Sepp – aveva pensato l’Americano, mentre un sapore amaro gli impastava la bocca. Non c’era Gewürztraminer capace di sciogliere i nodi oscuri della politica e delle menti. Forse dovevano ritenersi fortunati se era stato solo il sangue di pochi sventurati a macchiare la loro terra.
Laubengasse
Bolzano in fondo non era Vancouver, né Los Angeles. Attraversarla a piedi, prendersi un caffè in piazza Walter, respirare i profumi dei Portici e la brezza della Talvera costava solo una piacevole passeggiata per la quale non c’erano tempi da rispettare, solo la scadenza dell’ultima corriera per il rientro.
La città. A sinistra Bozen, l’antico mercato alla confluenza di tre fiumi, con l’ancora dominante architettura di stampo nordico, raccolta tra il Duomo, la montagna e il fiume. A destra, oltre il fiume e gli Ufern, gli argini che ai suoi tempi erano sinonimo di Grenzen, confini, l’antico sobborgo di Gries e Bolzano, la città nuova, per la maggior parte costruita, e abitata, dagli italiani immigrati dopo l’annessione. Appena oltre il Ponte Talvera che le univa, la piazza, dall’architettura vistosamente fascista, che ancora sbatteva in faccia ai sudtirolesi la vergogna di un monumento “Alla Vittoria”. Le scritte che vi campeggiavano erano un perpetuo insulto a un popolo la cui terra era stata annessa con gli intrallazzi di un trattato di pace assurdo perché in combattimento, sul fronte meridionale, nemmeno un metro era stato perduto. E pensare che su quella stessa piazza stava sorgendo un monumento ai caduti del 2° reggimento Tiroler Kaiserjäger, prima che la guerra fosse perduta. Poi il governo fascista lo aveva fatto saltare in aria e spianato, assieme all’antica locanda Badl e alla Glyzinientor, la porta del glicini, che introduceva al Parco Talvera. Eppure l’Americano, contrariamente al pensare comune, era sempre stato convinto che quell’insulto dovesse rimanere al suo posto, per non dimenticare, evitando così, forse, la ripetizione delle nefandezze passate, ammonendo che solo la verità e la collaborazione portavano frutti. Non era bene cancellare i segni della storia, men che meno quelli negativi. )…=
La pioggia aveva mandato a monte buona parte delle sue velleità di riscoperta, confinandolo al riparo dei Portici. Era stato così che aveva scoperto un gioiellino, nascosto al primo piano del numero 9, un appartamentino privato in cui qualcuno aveva allestito un piccolo museo del BAS, quel Befreiungs Ausschuss Südtirol, di cui Sepp era stato anima e braccio. Vi aveva trascorso più di un’ora, ritrovando molti dei suoi racconti e delle cose che lui stesso aveva vissute e provate prima di attraversare l’oceano. Alcune narrazioni però contrastavano in modo evidente con i resoconti della stampa locale dell’epoca. Ma non con le parole del grande vecchio. Trovò difficile dubitare riguardo a chi avesse barato.
Welcome home
“Welcome home mister Wolf!” Sorpreso, si volse lento, come se gli costasse fatica. A un passo dal suo naso, il volto gioviale di un dipendente dell’aeroporto di Terrace, BC, del quale non riuscì a ricordare il nome.
Uscendo dal viale dell’aeroporto, la collinetta sulla sinistra, che dominava la città, gli diede un tuffo al cuore. Non solo gli alberi ma anche i cespugli erano stati spazzati via, lasciando nudi i tre grossi serbatoi alla sommità del versante, livellato come un giardino. Appena più in là sorgevano undici fabbricati, in tutto simili a certi palazzoni di regime sovietici anni ’60, orridi come mai se ne erano visti in quella parte di mondo. “Kitimat Crossroads Lodge” indicava un tabellone che ne magnificava Dio sa quali pregi. Leo arrestò la macchina proprio di fronte, tirò il freno a mano e respirò a fondo più volte, tolse per un momento gli occhiali, come se sperasse che rimettendoli lo scempio sarebbe sparito.
Ripartì tenendo lo sguardo fisso alla strada, svoltò a destra e pochi istanti dopo spense il motore davanti alla casetta di Josh. “Brother … dear brother. Fratello … caro fratello.” Un vuoto in mezzo al petto si era colmato.
Aama sah
Era cambiata l’aria, quel gruppo di ragazzi che si avviava alla scuola era diverso. Gli erano passati accanto pronunciando con naturalezza il loro “Aama sah”, come non avrebbero mai fatto appena trent’anni prima. Buon giorno, nell’antica lingua, non l’insipido good morning inculcato
con bestiale violenza dai coloni bianchi. Il cambiamento era ritorno alle radici, forse agli antichi valori. Rispetto, Saggezza, Amore, Verità, Umiltà, Onestà e Coraggio, quelli che creavano unione, comunità. Recuperare una lingua quasi dimenticata era il primo passo perché in qualunque continente un popolo senza lingua era un popolo morto.
E se, a dispetto delle sue paure e delusioni, ci fosse stata ancora speranza, dopo tutto? E la sua Heimat, il suo amato Tirolo? Sarebbe stato capace di percorrere la stessa strada? Avrebbe dovuto essere più facile per loro che, nonostante tutto, la lingua l’avevano mantenuta sempre viva.
Farewell
Leo si risvegliò che un pallido raggio di sole frugava curioso la stanza, doveva essere quasi mezzogiorno. Che gliene importava? Non contano nulla gli orologi nella vita dei vecchi. Indossò l’abito di filato di lana di capra di montagna e corteccia di red cedar che la sua Luna Splendente d’Inverno gli aveva confezionato con le proprie mani, secondo la tradizione del Popolo del Pettirosso, per la loro unione. Mezzo secolo prima. Allo specchio ebbe la fugace impressione che le rughe fossero sparite, le spalle più sollevate, lo sguardo acceso di emozioni dimenticate …
Salutò con uno sguardo la maschera cerimoniale del Laxgibuu, il clan del Lupo, accarezzò la piuma d’aquila di Cecil e, per l’ultima volta, si chiuse la porta alle spalle.
Per un caso fortuito, ormai anziano, Leo torna alla vecchia casa di famiglia, nel Sudtirolo che ha lasciato a 17 anni. Ha trascorso l’intera vita lontano, fra le immense foreste del Canada, e per tutti ormai è l’Americano. Nel racconto di Max Unterrichter si mescolano gli anni della brutalità fascista e delle bombe in Sudtirolo con la ferocia coloniale e le Scuole Residenziali Indiane del Nuovo Mondo. Genocidi perseguiti cinicamente e esseri umani che vorrebbero solo vivere a modo loro, con rispetto e amore.
Il nuovo libro di Max Unterrichter – pubblicato dalla casa editrice Effekt! in lingua tedesca e da Youcanprint in lingua italiana e inglese – è un viaggio fra passato e presente, fra luoghi di confine e popoli diversi – i Nativi del Canada e i Sudtirolesi – ma accumunati dalle ingiustizie subite, dalla fierezza e unicità che li distingue da tutti coloro che li circondano, tra memoria e ricerca di un futuro che pare grigio di dubbi difficili da sciogliere.
“Malati di Sogni” non è un romanzo e nemmeno un saggio. E un libro vero, duro, per certi versi difficile da digerire, ma che vale la pena leggere, una prima volta tutto di un fiato, e poi un’altra ancora più lentamente, andando a fondo di ogni pagina, di ogni parola.
Chi non trovasse il volume in libreria oppure online, può rivolgersi alle case editrici (Effekt! = 0471 813 482 – info@effekt.it / Youcanprint ) o direttamente all’autore (munterr@tin.it )