Un libro al mese: Le “vittime silenziose” di Günther Rauch 2°
La follia ai piedi delle Alpi
Il 26 luglio 1944, più di trenta partigiani del Battaglione Garibaldi Carnico raggiunsero in camion il vicino comune di Piani di Luzza a Forni Avoltri. Da lì, passate le ore 16.00, si incamminarono per circa cinque chilometri per giungere a Bach / Pòch con l’intenzione di assaltare il presidio della gendarmeria tedesca prima dell’alba. L’assalto alla caserma di gendarmeria si configurava come gesto di rappresaglia per gli atti di folle violenza compiuti dai soldati tedeschi e dalle Brigate Nere travestite da partigiani. Soltanto una settimana prima, infatti, brigate nere e brigate brune si erano macchiate dell’omicidio di venti civili a Malga Pramosio e di altri cruenti e sanguinosi crimini nella Valle del Bût.
Il motivo vero (e in gran parte nascosto) all’origine del contrattacco partigiano di Sappada del 26 luglio 1944 fu la “condanna a morte dei banditi” emessa dal Tribunale speciale di Bolzano proprio il giorno antecedente i fatti. I giovani resistenti, tutti originari di Molina di Fiemme, erano accusati di aver costituito – fra aprile e maggio del 1944 – una “banda” (ossia un gruppo partigiano) in segno di renitenza collettiva alla chiamata alle armi tedesca. Secondo quanto riportato dal Bozner Tagblatt: “L’obiettivo della “banda” era quello di cacciar via prima i tedeschi dall’Italia, con l’aiuto degli inglesi e degli americani, e poi questi ultimi, con l’intervento dei sovietici, per favorire la nascita di un’Italia libera sotto il dominio comunista”. In buona sintesi, per sminuire la dignità degli accusati e far apparire il gruppo come un’organizzazione criminale, la “banda” fu chiamata dinanzi ai giudici per rispondere di una serie di furti e rapine più o meno grandi. Ma la questione non finì così: si cercò infatti, deliberatamente, di coinvolgere le aree di lingua tedesca nei rispettivi conflitti, tanto da far risultare letteralmente nel rapporto del tribunale che: “Quando si venne a sapere che la banda stava pianificando un attacco all’insediamento tedesco di Palai nella Valle dei Mòcheni, il 23 maggio 1944 polizia e gendarmeria decisero di intervenire. Nello scontro a fuoco perse la vita un partigiano e furono catturati sette banditi. […] Dopo l’arresto dei segretari comunali trattenuti come ostaggi, e le minacce naziste di distruggere singoli paesi e villaggi, si presentarono spontaneamente alla gendarmeria sette banditi che erano riusciti a fuggire in precedenza […]”
La notizia del processo di Bolzano ai 16 partigiani e del fallito attentato ad Adolf Hitler del 20 luglio 1944 giunse all’orecchio dei partigiani carnici del gruppo Garibaldi. Ed è molto probabile che proprio questo fosse uno dei motivi all’origine dell’assalto alla stazione di polizia di Sappada
L’attacco partigiano al presidio tedesco
Il 26 luglio 1944 giunse a Cima Sappada / Zepodn il Battaglione Garibaldi Carnico al comando di Italo Cristofoli detto “Comandante Aso” (…) Lungo il tragitto la formazione di partigiani si imbatté nel pittore sappadino Pio Solero e nella moglie bavarese Maria Theresia Solero Treichl Rosenwald di 52 anni, originaria di Monaco di Baviera. La coppia rientrava in bicicletta da Cima Sappada / Zepodn e si dirigeva verso casa. Dopo avvistato i partigiani, Pio Solero proseguì accelerando la pedalata e gridando alla moglie di fare altrettanto. Maria Solero Treichl, invece, si fermò con la sua bicicletta davanti all’Albergo Alle Alpi di Cima Sappada, attendendo con calma il passaggio dei partigiani, i quali invece la trattennero come prigioniera (…)
L’orologio del campanile di Sappada / Plodn rintoccò le 18.00 (o le 19.00, qui la rievocazione storica sull’orario esatto a tratti diverge). Nel negozio di alimentari di Luigi Cecconi, intento a occuparsi del suo lavoro, piombò Pio Solero per usarne il telefono: doveva informare la gendarmeria tedesca del fatto che la moglie era stata arrestata dai partigiani. Poche parole e la conversazione telefonica fu bruscamente interrotta: i partigiani avevano tranciato i cavi telefonici. Qualche istante dopo, dalla vetrina del negozio, Solero e Cecconi videro i partigiani carnici imbracciare le loro mitragliatrici e aprire il fuoco all’impazzata contro il comando della gendarmeria. Il maresciallo capo, Heinrich Brakhan, che aveva azzardato l’uscita dalla stazione di polizia rimasta scoperta, ne risultò gravemente ferito. Riuscì a rifugiarsi in una casa vicina dove una donna stava per trasportalo dal medico del comune, quando alcuni partigiani lo impedirono, insistendo affinché fosse giustiziato senza pietà (…)
Nel frattempo, al caposaldo continuava a consumarsi lo scontro. Il comandante partigiano Cristofoli invitò quindi alla resa i “venti-venticinque uomini della Feldgendarmerie, quelli con l’uniforme verde e l’aquila”. Ma quando, incautamente, si accingeva a varcare la soglia del comando fu raggiunto e fulminato da un colpo sparatogli alle spalle. I documenti giunti fino a noi e la letteratura in materia forniscono versioni discordanti sulla mano che premette quel grilletto: c’è chi sostiene che “Aso” cadde in uno scontro a fuoco con i gendarmi tedeschi; chi afferma, invece, che il colpo – dettato da una vendetta personale – fu sparato da un partigiano.
Nel feroce scontro a fuoco che si consumò in quelle due ore di assedio era caduto anche uno dei gendarmi sudtirolesi. Complessivamente furono due i gendarmi tedeschi a perdere la vita in quell’assalto. Diversi sono invece i dati riportati dal diario del Battaglione Garibaldi Carnico, secondo cui durante l’attacco pianificato alla caserma della gendarmeria i numeri relativi alle vittime e ai prigionieri sarebbero stati altri con “[…] un maresciallo e tre soldati tedeschi morti […] e nove tedeschi prigionieri …”. Nel corso delle opere di sgombero della stazione di polizia, i partigiani portarono inoltre a casa un ingente bottino costituito da cibo e armi, oltre a due fucili d’assalto, due mitragliatrici, numerosi altri fucili e munizioni nonché un’importante quantità di attrezzatura militare.
A prescindere da come andarono realmente i fatti quel giorno, una cosa è certa: per evitare ulteriori spargimenti di sangue, i gendarmi tedeschi intrappolati nel presidio di Borgata Bach / Pòch decisero di arrendersi. I quindici militi superstiti uscirono con le mani alzate e furono incolonnati, sotto stretta sorveglianza, verso Cima Sappada / Zepodn.
I nostri lettori conoscono già Günther Rauch, giornalista pubblicista, autore e ricercatore storico. E conoscono pure alcuni dei suoi libri, fra cui spiccano quelli dedicati al campo di concentramento fascista di Blumau, il poderoso volume “Marsch auf Rom” e, appunto “Lautlose Opfer” (riguardo a quest’ultimo ecco un link a un articolo pubblicato su UT24 all’epoca della sua presentazione: LAUTLOSE OPFER, LA STORIA DEI FRATELLI VALENTINOTTI
Il capitolo dedicato a Maria Kratter-Valentinotti, nella traduzione di Sonia Pio, è contenuto nel libro “Sappada / Plodn 1943 – 1945. Venti mesi di guerra tra occupazione nazista e lotta partigiana”, che può essere richiesto all’Associazione Plodar con sede presso il Municipio di Sappada, all’indirizzo mail info@plodn.info o assplodar@pec.plodn.info