von mas 28.05.2020 06:49 Uhr

Briciole di Memoria: Maria Boso “Tamburlo”, diario di una Tirolese – 2 parte

Massimo Pasqualini ha deciso di pubblicare – in esclusiva per i lettori di UnserTirol24 – una parte del diario di sua bisnonna, che nel febbraio 1916 fu internata in un lager in Sicilia.  E’ un racconto vero, duro e  molto dettagliato: quella di oggi è la seconda parte.

Maria Boso "Tamburlo", l'autrice del diario

Dopo la PRIMA PARTE pubblicata giovedì scorso, ecco la  seconda parte del diario di mia bisnonna Maria Boso “Tamburlo”, dove racconta il viaggio allucinante che dovette affrontare quando fu internata in Sicilia dalle autorità italiane nel febbraio del 1916, solo perché ritenuta colpevole di aver domandato ad un ufficiale italiano dove fossero gli austriaci e per essere stata la moglie del Maestro Piero Sordo “Carlin” definito dagli italiani un noto austriacante.

 

Partenza da Vicenza: “Ci rilasciarono una carta da presentare a Firenze.  Passai per Padova, per Sant’Elena, che crepacuore essere vicino ai miei figli, alla loro stazione e non poter nemmeno vederli, salutarli, baciarli, la mia Pierina, Ermete..  (NdA:  La famiglia di mia bisnonna era veramente numerosa:  lei era vedova quando sposò mio bisnonno pure lui vedovo. Entrambi avevano avuto diversi figli dai precedenti matrimoni,  che riunirono in un unica famiglia e ai quali si aggiunsero altri quattro nuovi nati dalla loro unione). La rassegnazione mi sostenne in simili momenti. Arrivammo a Bologna e ci fermammo fino a notte.

Partenza da Bologna, arrivammo a Firenze  e qui ci annunciammo alle guardie di polizia che ci condussero “all’asilo” profughi della scala n. 26. Qui incontrai la cugina Narcisa Dalceggio che nel momento di sventura mi consolò; – trovare una mia parente in uguale sventura….. Ci fecero entrare in cucina e facemmo colazione, trovai qui la madre del Signor Fabbro, impegnato al censo di Strigno,  un’altra persona di Pieve e il marito della sorella di Biete. Arrivai a Firenze il giorno 24 e restai fino al 4 marzo, il giorno di sabato alla mattina io e la Narcisa andammo dal commissario a chiedergli se ci permetteva di andare a vivere in città dichiarando di essere in grado di mantenerci ed aggiungendo ,che noi siamo zia e nipote, che avremmo vissuto assieme. Egli ci disse che se siamo zia e nipote senz’altro saremmo rimaste assieme. Ci disse che per intanto ci mandava in Romagna per 15 giorni e che poi, accertata la nostra innocenza, ci avrebbero rimandate a casa. Partiamo contente, andiamo in sala e qui si fecero mille commenti, chi diceva che ci ingannavano, chi diceva che credeva a quanto ci avevano detto. Il fatto è che all’ora stabilita dovemmo partire.

  • Maria Boso "Tamburlo" assieme al marito Maestro Piero Sordo "Carlin" pochi anni prima di terminare la sua esistenza terrena

Ero sempre rassegnata a qualsiasi cosa. Tutto il giorno, sino all’ora della partenza, fummo sequestrati in a casa. Scrissi in qualche modo una lettera a casa dicendo che partivo da Firenze per la Romagna. Agli amici di Cinte che non avevo potuto salutare prima della mia partenza, spedii una cartolina. Verso l’una ci chiamano e fecero l’appello. Eravamo 31 tutti della mia compagnia di viaggio fra i quali la Narcisa, la Vittoria e altri da Scurelle, altri di Telve, famiglie intere.  

Alle due giorno 4 in trenta siamo pronti con le valigie in mano, meno io che non avevo bagaglio. Ci fanno sfilare tutti e ci consegnano ad ogni uno un pezzo di pane con in mezzo fette di mortadella per il viaggio. Camminammo verso la stazione scortati da guardie e carabinieri come fossimo rei di chi sa quali delitti (alcune guardie erano gentili ed ai più vecchi e bisognosi li aiutavano che aiutavano a portare i bagagli). Ci fanno prendere posto in un vagone tutto per noi, fischia il treno e si parte sempre con la speranza di fermarci in Romagna. Qualche tempo dopo che lasciammo Firenze, ci viene annunciato da una delle guardie che ci scortava che la nostra meta era la provincia di Trapani in Sicilia. Facciamo un poco di commenti per la furberia che adoperò il commissario per convincerci; fece come un furbacchione, che dice in una cosa e ne fa un’ altra.

Non mi restò altro che prendere la mia croce e seguirli. A mezza notte circa siamo arrivati a Roma: era sabato. Ci condussero nelle sale dei lavoratori e qui non permettevano che entrasse nessuno tanto eravamo guardati a vista sempre dalle guardie; tanto ché se si avesse bisogno di andare in bagno, bisognava essere accompagnati dalle guardie. Telefonarono alle caserme dei soldati dicendo che erano arrivati questi profughi che avevano bisogno di cena. Verso mezzanotte del giorno 5 vengono alcuni soldati con due vasi di caffè e latte caldo e pane, ma senza discutere; tutti si ingegnarono a procurarsi dei contenitori, chi nelle bottiglie chi nei bicchieri , io adoperai il coperchio di un vaso. Si bevve il latte, il caffè e si mangiò una fetta di pane. Ricevemmo una conserva e una pagnotta per ciascuno, da mangiarla durante il viaggio. Alla mattina pioveva, era freddo, verso le quattro del giorno 5 ci permisero di andare a prendere il caffè nero e qualche bicchierino in un vicino cabiotto come quello dove da noi si vendono i fogli (NdA: immagino che per “fogli” lei intendesse parlare dei giornali).

Poi ritornammo alla solita camera ad aspettare l’ora della partenza. Essere a Roma e non poter visitarla e nemmeno andare alla S. Messa.. è domenica… Alla mattina ci fanno prendere le valigie e ci scortano al treno… qui una grande confusione: civili, soldati, profughi, carabinieri e guardie. Arrivati alla stazione tra due file di guardie montammo in un vagone a noi destinato.. dopo pochi minuti noi cominciamo dire che manca una persona; allora ci contano, il fatto è che siamo non 31 ma 30. Cominciano, le guardie che ci avevano in custodia, ad agitarsi, una resta con noi, l’altra chiama i carabinieri, corrono, cercano, telefonano, ma tutto inutile, il profugo non si trova. Bisogna partire, sale anche la guardia.

Dopo le cinque il treno si mette in moto verso Napoli; arriviamo verso le tre del pomeriggio. E qui, sempre le stesse guardie ci condussero a mangiare in un ospizio, ove erano ricoverati profughi e prigionieri, credo greci. Trovammo le tavole tutte unte e bisunte, i bicchieri sporchi, il mio cucchiaio aveva incrostata ancora la minestra del giorno prima, fortuna che ne avevo uno nelle tasche e adoperai quello. Il mangiare consisteva in carne e patate che sapevano di fumo, la carne era dura, credo sia stata di cavallo ed il vino era mischiato con l’acqua, di quello si poteva berne fin ché se ne voleva… Un poco andava giù, un poco veniva su– Il pirone (la forchetta) non l’abbiamo adoperato, tanto era sporco. Il pane era buono e ce ne diedero anche per il viaggio, ma pane solo e quanto se ne voleva. Ringraziammo e ritornammo verso la stazione.

Le contrade di Napoli erano sporche, sporche. Ci condussero alla stazione; li c’erano tanti soldati adagiati sulle panche che aspettavano per andare al fronte. Li chiamarono perché ci lasciassero il posto e qui restammo fino alle sette di sera. Alle sette ci dissero che bisognava mettersi nuovamente in viaggio. Si prendono i soliti fagotti e le valigie e via.

  • Tesine nel 1909 ad Innsbruck alla manifestazione in ricordo di Andreas Hofer e della battaglia del Bergisel. Sfilarono anche 2 figlie di Maria Boso "Tamburlo" assieme a suo marito il Maestro Piero Sordo "Carlin", mentre il figlio Ettore comandava gli Schützen di Castello Tesino

Il treno è pronto, ma tanta è la confusione che non possiamo avere il treno per i profughi. Io presi posto fra un capitano e un tenente ed inoltre c’era una vecchia con suo figlio. In tutti eravamo in otto in un vagone di seconda classe. Gli altri profughi erano divisi alla meglio negli altri vagoni. Viaggiammo tutta la notte.

Passai Caserta, città di Nane di Balduzzo della Paula (NdA: era uno dei moltissimi Castelazi che facevano i venditori ambulanti). Attraversammo Reggio Calabria, qui mi ricordai di Gorio Morte, erano i suoi paesi di commercio (NdA: pure lui pertegante o venditore ambulante in italiano). Arrivammo verso le cinque di mattina del giorno 6 marzo a S. Giovanni di Messina. Qui trovammo pronto il vaporetto; prendemmo posto e ci troviamo sul mare diretti verso Marsala. Dal vapore osservo e guardo Messina, si vedono ancora le rovine del terremoto. Ora le case sono tutte basse e per di più di legno.

A Messina si smonta dal vaporetto e si sale su un treno, sempre treni diretti. Ancora, come prima un treno speciale per soli profughi assieme alle solite guardie che ci dovevano accompagnare, queste erano gentili e buone. Alle ore 6 siamo alla volta di Palermo, paese di Piero Menato, dove morì. Giungemmo a Palermo verso sera.

Passiamo per Trapani, passando per Castellamare le guardie diedero ordine di smontare, ma noi diciamo che non siamo ancora a Trapani. Le guardie dissero che un telegramma ordinava di fermarci a Castellamare. Ero sidiata (NdA: assetata), affamata, stanca come me tutti gli altri. Qui a Castellamare vi è una semplice stazione, non si riceve niente altro che vino. Io ne bevvi un bicchiere. Le guardie, poverette, mandano subito una richiesta all’autorità del paese che fornisca tre carri per condurci in paese. Arrivano i carri, io prendo posto sul secondo e giungiamo a Castellamare del Golfo verso le 10 di notte.

In città vi erano ad attenderci  guardie, carabinieri e superiori, c’erano anche profughi che sentendo del nostro arrivo, in tanti si erano alzati per vedere se vi erano persone di loro conoscenza. Ci condussero in municipio, ed è qui che incontrammo tanti profughi, amici di sventura.

 

  • Il Maestro Piero Sordo "Carlin" assieme alle Tesine che nel 1909 - indossando la Tracht del Tesino - sfilarono ad Innsbruck davanti all'Imperatore; tra loro anche due figlie di Maria Boso.

Io non trovai nessun conoscente. Poi ci hanno portati in una vecchia caserma destinata ora ai profughi. Qui in una cantina ci portarono la cena. Mangiammo e poi, data la buona notte siamo andati a riposare, sempre se si può dire riposare. Io, Narcisa e Vittoria siamo andate per prime e occupiamo tre paioni (NdA: giacigli di paglia) che avevano adoperato gli altri. Tutti si buttarono sulla paglia, parte avevano la coperta, parte erano senza, io per fortuna ne ebbi una, ma usata. Sebbene fossi stanca non chiusi occhio in tutta la notte.

Alla mattina sono andata nella baracca vicina e feci colazione. Facemmo un contratto con il cantiniere per una lira al giorno. Alla mattina del giorno sette mi alzai presto perché ero vestita domandai alle profughe vecchie ove potessi andare a lavarmi, mi dissero che bisognava andare al pozzo.

Apro la porta e vedo uomini che si lavano essi pure; mi dirigo verso il pozzo con in mano l’asciugamano della Narcisa. Che pozzo! Il secchio spandeva acqua da più di 10 buchi, la soga (NdA: corda) era sgretolata. Arriva il mio turno. Calo il secchio nel pozzo ma anch’esso piange da tutte le parti e lascia andare l’acqua dai buchi ancora nel pozzo. Finalmente, dopo un po’, riesco a far arrivare l’acqua all’orlo del secondo secchio che serviva da bacinella e comincio a lavarmi .

Quando ebbi finito di lavarmi e stavo per ritornare fra la mia gente, alzai gli occhi e vidi un uomo fermo in mezzo il cortile, anch’esso diretto al pozzo. Lui mi guarda me ed io guardo lui. Quale incontro! Mi sembra il Minati. Al primo saluto le lacrime scorrono dagli occhi di tutte due. Potete immaginare come furono i nostri saluti. Contenti di esserci trovati ed avviliti perché ci trovavamo in questo posto senza saperne il motivo e senza sapere per quanto tempo ci avrebbero trattenuti qui.

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