von mas 29.09.2016 07:00 Uhr

Lhasa 2015 / Trento 2018: scopri le differenze

Lo scorso settembre, a Lhasa, la grande parata della polizia militare per festeggiare i 50 anni “dell’indipendenza” del Tibet.

Sulla stampa italiana allora la notizia veniva data cosi:

L’apparato di Stato cinese ha celebrato in grande stile l’8 settembre un anniversario che ritiene di grande importanza, i 50 anni dall’inizio formale del governo della Repubblica popolare e la nascita della cosiddetta Regione autonoma del Tibet. Davanti al leggendario Potala di Lhasa trasformato in attrazione turistica e per un giorno al centro della festa politica di bandiere, schieramenti militari e genti sorridenti in costume tibetano, sono stati pronunciati discorsi di orgoglio per l’”Epoca d’oro” del Tibet e i successi ottenuti sugli altipiani un tempo “arretrati” grazie al ruolo del Partito e della Cina tutta.

Alla solita sfilza di cifre delle realizzazioni ottenute in questo mezzo secolo di “progresso socialista”, come il numero di industrie prima e dopo la “liberazione pacifica”, o il reddito procapite, l’educazione e via elencando, Yu Zhengsheng, consigliere politico per i gruppi religiosi e le minoranze etniche del governo, ha aggiunto un capitolo dedicato ai nemici della Cina e del Tibet. Tra questi svetta ovviamente la “banda del Dalai Lama”, assieme a “forze ostili straniere” che starebbero “costantemente conducendo attività separatiste tra tutti i gruppi etnici”.

La garanzia ribadita per l’occasione da Mr Yu ai tibetani fedeli alla nuova “madrepatria”, ai religiosi e laici che la appoggiano, è di applicare la legge e di “rafforzare la battaglia contro il separatismo” e “salvaguardare risolutamente l’unità nazionale e la stabilità del Tibet”.

La storia insegna che le prime truppe cinesi marciarono sul Tibet orientale nel 1950. Anno dopo anno, prima e dopo la fuga del Dalai Lama nel 1959, molti sacerdoti, monaci e laici in tutto l’altipiano furono costretti ad abiurare il loro antico leader ed eliminare le foto del Dalai dai loro altari. Ogni segno di ribellione ha avuto come conseguenza non solo arresti, torture e uccisioni, ma la distruzione stessa dei monasteri ribelli. Un anticipo delle devastazioni che durante la rivoluzione culturale presero di mira tutto il “vecchio”, dai religiosi ai luoghi di culto. Ancora oggi, come dice il capo del governo tibetano in esilio Lobsang Sangay, non c’è proprio “nulla da festeggiare in Tibet”, un Paese che è “ancora sotto occupazione” e dove i tibetani “sono ancora brutalmente repressi”.

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